Con tono dimesso, qualche osservatore l’ha definito compassato, il sindaco di Istanbul Ekrem İmamoğlu postava stamani un messaggio vocale sui social. Diceva che si stava recando in un distretto di polizia perché raggiunto da un mandato di cattura. Il commissariato si trova a Fatih, quartiere storico della metropoli e anche agglomerato dove maggiore è la presenza dell’elettorato dell’Akp il partito del presidente Erdoğan. Il Convitato di pietra di quest’arresto, operato da una magistratura particolarmente ossequiosa col potere vigente poiché da circa un decennio ha subìto il repulisti con cui l’uomo della Turchia islamista ha purgato l’apparato statale dopo il tentato golpe del 2016. Il fermo del candidato repubblicano per le future elezioni presidenziali ha di per sé sapore di colpo di mano, almeno così sostiene l’opposizione all’attuale governo incardinato sull’alleanza fra Akp e i nazionalisti del Mhp. Infatti da stamane sono vietate per quattro giorni manifestazioni di protesta sull’accaduto o di semplice sostegno al sindaco, gli stessi collegamenti Internet hanno iniziato a disconnettersi. Le accuse rivolte alla nuova leva del Chp, figura di primo piano dopo l’uscita di scena del segretario accentratore Kılıçdaroğlu, sconfitto alle presidenziali del 2023, sono due: aver tessuto una rete corruttiva sugli appalti che la prima città turca stabilisce per i servizi rivolti a oltre sedici milioni di cittadini e, questione ben più cocente, avere rapporti col gruppo del Pkk, considerato terrorista dal governo di Ankara e pure da Washington e Bruxelles. İmamoğlu non è il solo a ricevere la prima accusa, che riguarderebbe anche la sua precedente funzione direttiva a Beylikdüzü, periferia ovest di Istanbul. L’accompagnano circa un centinaio fra amministratori e funzionari locali delle varie e popolose aree in cui è divisa la metropoli fra i due rami europei e quello asiatico, un territorio sterminato che nel ventennio di governo dell’Akp ha conosciuto un macroscopico incremento edilizio e un’implementazione di opere pubbliche e private.
Su queste dal 2019 è subentrata, almeno in parte, la direzione del pupillo repubblicano, dopo oltre due decenni di guida islamista che nel 1994 aveva visto lo stesso Erdoğan partire da quell’incarico. Più che vendetta a posteriori, İmamoğlu, già nel 2022 condannato a due anni di reclusione per aver insultato i componenti del Supremo Consiglio Elettorale, si trova ostacolato a mezzo giuridico dal proseguimento lineare della carriera politica, visto che rappresenta un pericolo per l’attuale asse del potere turco. Gli analisti lo darebbero vincitore alle presidenziali del 2028, interdette al presidente uscente per somma di mandati. E non vedendo all’orizzonte dell’attuale ceto di governo un candidato di peso e, ancor più, per il delirio di onnipotente presenza che lo caratterizza, Erdoğan pensa a un ennesimo ritocco costituzionale, diciamo “alla russa”. Naturalmente rivolto a sé stesso. In quest’intreccio rientra il corteggiamento del partito filo kurdo Dem, contattato nello scambio dei colloqui di riavvicinamento alla comunità kurda attraverso il leader-prigioniero Abdullah Ocalan. I bistrattati, dal sistema turco, deputati kurdi, compresi quelli tuttora incarcerati per presunto fiancheggiamento al Partito Kurdo dei Lavoratori, se l’accordo di “normalizzazione“ passasse, producendo il disarmo delle fila dei militanti del Pkk e il riconoscimento dell’autonomia amministrativa dei territori del sud est anatolico, potrebbe prevedere anche quei voti alla riforma costituzionale necessari a un proseguimento della presidenza Erdoğan fino alla soglia ottuagenaria. Niente di straordinario in un mondo dove la classe dirigente invecchia sulle proprie cadreghe trasformate in troni. Sempre che non si venga disturbati da qualche İmamoğlu guastatore.
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