giovedì 27 marzo 2025

La tristezza di Pamuk

 


Nessuno può prevedere che cosa ci riserva il futuro ha scritto oggi sul Corsera Orham Pamuk, premio Nobel della letteratura innamorato della Istanbul romantica nel suo capolavoro più noto, infarcito di vicende personali e immagini della città, non ancora metropoli. Amante della propria infanzia e d’un mix di vestigia imperiali in disarmo e di quartieri poveri, poverissimi negli anni Sessanta. Gli anni dei golpe militari che travolgevano tutti, anche i kemalisti del Partito Repubblicano che coi difensori del laicismo in divisa provavano a star sottobraccio, per essere comunque travolti, come ogni partito, da chi diceva di porsi al di sopra delle parti: le Forze Armate. Proprio nell’anno in cui Pamuk nasceva, il 1952, la nazione anatolica era ammessa nella Nato. Era l’epoca dell’Alleanza Atlantica para golpista e manovrata dalla Cia che creava il sistema Stay-behind, dalle parti nostre, fra Taviani, Andreotti e Cossiga, denominata Gladio. Quella Turchia piaceva ai disegni trumaniani e al generale Eisenhover, l’impatto d’un esercito sorto dal furore dei “Giovani turchi” poteva servire per contenere la possibile contaminazione comunista sulle sponde del Mar Nero. Ma l’animo di Pamuk vola alto, è estremamente sensibile, guarda altro, guarda oltre e in uno dei passaggi delle mirabili pagine di Istanbul insegna che hüzün, che in lingua turca sta per ‘tristezza’, viene dritta da due versetti del Corano, dunque è d’origine araba. Ma ha anche un sinonimo, menzionato in altri versetti, che diventa ‘afflizione’. Fra i due: “Il sentimento di tristezza può derivare da d’un eccessivo attaccamento al mondo, ai beni, ai piaceri materiali”, “l’origine mistica dell’afflizione si dimensiona sul senso di perdita e di dolore. Un vero mistico non pensa alle questioni mondane come le ricchezze, i beni, ad affliggerlo può essere la sua incapacità di avvicinarsi ad Allah”. Accostare a questi concetti il feroce scontro fra l’uomo che ha incentrato sull’Islam il suo progetto politico e l’avversario politicamente laico ma di profondissima fede musulmana,  finito in galera per accuse di corruzione e peculato, è quantomeno straniante. Staccati entrambi da qualsivoglia misticismo islamico. 

 

L’ex sindaco İmamoğlu e il presidente Erdoğan, suo persecutore sebbene celato dietro le toghe dei magistrati, paiono ben lontani dallo spirito triste della metropoli turca e della cultura islamica che la pervade. Presi, com’è ovvio per due politici di primo piano, da ragioni amministrative e di potere, le stesse che stravolgono il volto di tante città in Europa, in Asia e nel mondo con trasformazioni legate più allo sviluppo che al progresso, e di conseguenza all’affarismo. Nei ricordi dell’Orham bambino c’erano ancora i velieri attraccati a Karaköy, ma è difficile dire se con le odierne settantatré primavere preferisce i trascorsi scorci del Bosforo all’attuale Marmaray, ponte subacqueo fra i continenti su cui s’affollano sedici milioni di cittadini. Nella gestione amministrativa della metropoli, prima coi sindaci dell’Akp, Erdoğan compreso, poi del Chp, si possono trovare intrecci e imbrogli speculativi, quelli con cui la procura ha spedito il leader repubblicano nella galera di Silivri, però a chi della città del ricordo nulla sa, appare un pretesto. E appare esserlo anche allo scrittore del sentimento che l’afferma a gran voce: “Tutto questo è inaccettabile e profondamente insopportabile, ed è il motivo che spinge un numero sempre maggiore di persone a partecipare alle recenti proteste”. Nel luogo che trasuda Storia trasformata in argentea vetrina per turisti, megalopoli per abitanti, crocevia per affaristi legali legati alla politica d’ogni colore e per i traffici illegali capaci di mimetizzarsi fra l’approccio distratto o complice di chi gestisce il potere, è in gioco l’ultima parvenza di democrazia. A questo scoglio s’aggrappano i protestatari di Saraçhane, i militanti del maggiore partito d’opposizione e i ventenni che non hanno conosciuto la Istanbul delle legnose  yalı, né i carri armati che decretavano il coprifuoco quando Kemal inseguiva il disperso amore per la bella Füsun. Chissà quanti liceali di piazza passano oggi al Museo dell’Innocenza, e se la tristezza per la libertà messa a repentaglio dal potere trova spazio per emozione e sentimento.

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