Si fa un gran parlare di
resistenza afghana, di possibile organizzazione, di necessari aiuti - d’uomini
e mezzi - per sbarrare la strada al nuovo regime talebano. Tutto giusto, tutto
possibile ma per non scambiare i desideri con semplici velleità non andrebbe
dimenticato qualche particolare. Primo. Quanto sta accadendo da metà agosto nel
travagliato Paese è il frutto di scelte compiute dalla potenza che ha guidato
il ventennio d’irrealizzate trasformazioni socio-politiche e anche militari.
Secondo. Un pezzo della diplomazia mondiale (Russia, Cina, India, Pakistan,
Iran, Turchia) che ha osservato a Doha e Mosca gli sviluppi di accordi e
colloqui valuta l’oggettività dell’attuale situazione al vertice della nazione
afghana. Terzo. Per sostenere il corposo flusso di persone che vuole
allontanarsi dalla restaurazione talebana alle strutture statali e non dell’Occidente
che stanno provvedendo all’evacuazione, potrebbero aggiungersi organismi delle menzionate
potenze che approvano il nuovo corso afghano, ma quest’ultimo resta una
soluzione condivisa. Sul fronte della presunta resistenza, per ora, è in atto
quello che può definirsi un sostegno morale, supportato da prese di posizioni
come quella dell’intellettuale francese Bernard-Henri Lévy, di cui il
quotidiano La Repubblica riporta
un’intervista telefonica. Oggetto dell’attenzione del filosofo non è il
manipolo, di cui pure nei mesi scorsi s’è parlato, del ‘comandante spada’
Alipoor che ha organizzato un gruppo realmente armato nel distretto Behsud, nel
Maidan Wardak. La ricerca resistenziale
investe il figliolo d’un famoso mujaheddin degli anni Ottanta, poi signore
della guerra dei Novanta: Shah Massud. Al di là del noto cognome e dello stesso
nome Ahmad, padre e figlio hanno storie molto diverse. Attendersi dall’odierno
trentaduenne erede, che fino a un anno fa di tutto s’occupava non certo di
guerriglia, zampate da leone come quelle paterne sembra narrazione di
fantapolitica.
Oddio nella recente
intervista, un’altra gliela fece di persona nel maggio scorso con tanto di
foto-ricordo, Lévy insinua vari dubbi. Innanzitutto quelli di trattative per
una resa. Cui Massud junior risponde sdegnato: “resa è una parola che non esiste nel mio dizionario”. E sia. Quindi
le incertezze nutrite dagli stessi possibili sponsor europei d’una resistenza a
sua guida. Ma fra i ricordi paterni, i suoi insegnamenti diretti e i tanti
indiretti, il mito vissuto e rimasto intatto nel Panshir e altrove, la
chiacchierata funge da sostegno mediatico a qualcosa cui l’ex ragazzo che
amerebbe la pace (lo dichiara lui stesso) si trova attaccato addosso. Il suo
nome è un richiamo, la sua persona un simbolo, entrambe vengono usate, chi
vorrà opporsi con le armi ai taliban potrebbe trovare forza in questa missione
che appare impossibile. Finora il figlio di cotanto padre si ritrova al fianco
soggetti poco raccomandabili come Amarullah Saleh. Presidente in pectore di
quello Stato di fuga incarnato da Ashraf Ghani, ma anche suo collaboratore se
non nelle ruberie, certamente nelle angherie rivolte a miliziani e cittadini
sospettati tali, dunque anche molti civili senza colpe. Finiti nelle galere
dell’Intelligence diretta da Saleh stesso e torturati. Anche sulla
santificazione compiuta su Massud padre ci sarebbe da riflettere.
Un’esaltazione compiuta non solo dai tajiki, ma da molta propaganda occidentale
che ne sosteneva l’abilità guerrigliera. Non ultima la stampa con cui Shah
Massud amava conversare, cosa che gli costò la vita con l’attentato organizzato
da jihadisti di Qaeda, giunti al suo cospetto con telecamere imbottite
d’esplosivo. Accadeva alla vigilia dell’attacco alle Torri Gemelle.
Dell’invidiabile carriera di Massud senior, è stato sempre celato il lato
oscuro che non lo fa diverso per massacri verso la popolazione afghana durante
il quadriennio di guerra civile pre-talebano (1992-96). Anche le sue
artiglierie vomitarono bombe sui kabulioti durante l’assedio posto alla
capitale da varie fazioni islamiste in lotta per il potere.
Se Hekmatyar si guadagnò
il poco invidiabile epiteto di macellaio di Kabul, Massud, Dostum, Sayyaf, Khan
non furono meno coinvolti nella guerra di tutti contro tutti che spianò la
strada ai turbanti ‘pacificatori’. Però per dare al vero leone del Panshir la
fama guadagnata sul campo - nel corso della jihad di resistenza contro l’Armata
Rossa - è utile rileggere qualche passo d’un coriaceo inviato di guerra che più
volte ne raccolse direttamente i racconti e ne descrisse le gesta: Ettore Mo. “Lo incontrai per la prima volta nell’aprile ’81.
Ahmah Shah Massud era già un comandante leggendario dei mujaheddin, lo
chiamavano il “Leone del Panshir”. Era la sua valle, ci era nato e vissuto da
ragazzo prima di andare a Kabul, dove aveva frequentato il liceo francese e,
più tardi, l’università. Era bravo a scuola, anzi brillante. Ma non prese mai
la laurea, di architetto, era una testa calda, un carbonaro. Come Gulbuddin
Hekmatyar, l’altro ingegnere mancato, e come tanti studenti della buona, media
borghesia afghana, non condivideva gli obiettivi del regime socialista e
modernamente filosovietico di Daud… Risalendo la valle, che man mano
abbandonava i grandi spazi verdi per contrarsi e contorcersi in cupi e angusti
camminamenti, si poteva constatare che qui la guerra era stata più intensa e
violenta che altrove: più che nelle province di Paktia e Nangarhar, più che la
vallata del Kunar o sulle montagne e nei deserti del sud-ovest, dove pure avevo
camminato. I relitti, le carcasse di autocarri e autoblindo, carri armati T-54
e T-55 sdraiati sul dorso, pale di elicottero e ponti di ferro montati su
camion erano sparpagliati ovunque al margine della strada e sulle scarpate del
fiume Panshir: a conferma del prezzo durissimo che gli sciuravì (definizione
locale dei sovietici, nda) avevano dovuto
pagare, già dai primi tentativi, per la conquista dell’importante bastione
strategico a nordest di Kabul…”
“La prima
volta – disse – i russi ci aggredirono con abbondanza di mezzi corazzati, circa
cinquecento tra carri armati e veicoli militari, più una quarantina di
elicotteri Gunship Mi-24. Nell’attacco persero la vita cinquecento soldati
sovietici: dalla nostra parte, le vittime furono ventotto, di cui solo quattro
guerriglieri. Come sempre, fu la popolazione civile a pagare il prezzo più
alto. L’insuccesso della prima offensiva consigliò lo stato maggiore
dell’Armata Rossa di aumentare uomini e mezzi. E infatti nel secondo attacco,
quello estivo, blindati e automezzi erano circa ottocento, mentre era stato
ridotto della metà il numero di Mi-24. Ma anche le perdite furono pesanti.
Circa tremila i russi e i governativi uccisi, mentre noi abbiamo avuto
centocinquanta morti tra i civili e venticinque mujaheddin. La terza offensiva
dell’80 fu la più lunga di tutte, prolungandosi nell’81. Gli sciuravì non avevano fatto economie ed erano
arrivati a fondo valle con millesettecentocinquanta mezzi corazzati, carri
armati, trasporto truppe, autoblindo, camion, trattori, cucine da campo. C’erano
in tutto quindicimila soldati, tra sovietici e governativi. I russi persero circa
duemila uomini. I nostri martiri furono quindici”. Precisa Mo: Quasi
certamente, quei conteggi peccavano per eccesso, ma ogni possibilità di
verifica era impossibile. I russi non lasciavano mai i loro morti sui campi di
battaglia. Raccolti e imballati, venivano riportati in patria nottetempo, nel
ventre degli Ilyushin, per evitare che la gente sapesse qual era il costo
effettivo della guerra in Afghanistan”….
“Cerchiamo di avere il minor numero
di martiri possibile - disse Massud sempre sorridendo - mentre vorremmo che ce
ne fossero tantissmi dall’altra parte. Ma i miei uomini sono preparati,
conoscono la tecnica della guerriglia. Dall’anno scorso qui a Bazarak funziona
una scuola di addestramento militare, abbinata a corsi di preparazione
religiosa e culturale”. Non basta
farsi fotografare con un pakol sul capo per assumere il piglio del leone…
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