Fanno più male le
promesse
di Zabihullah Mujahid, su cui molti afghani, ancor più se donne, storcono il
naso o l’addio del presidente Ghani che prima di squagliarsela s’è
autoincensato ancora una volta come statista, sostenendo che quella partenza
serviva a evitare martiri e la distruzione di Kabul? Indubbiamente entrambi, specie se il sangue inizia a scorrere, non solo nella caotica
illusione di fuga dell’aeroporto di Kabul, ma per rivolte di strada come a Jalalabad,
inseguendo la speranza simbolica d’una bandiera. In tanti temono l’Afghanistan
del futuro, ma quello recente si palesa con tutto lo sfregio alla popolazione
provocato da un sedicente ceto politico. Se dei ragazzi si fanno ammazzare
nello spontaneistico desiderio d’issare la bandiera afghana perché rigettano lo
stendardo talebano, chi ha infangato quella bandiera ha la spocchia di parlare
tuttora della nazione. Il tecnocrate formato dalla Banca Mondiale ha portato
con sé negli Emirati Arabi un gruppone di duecento yesmen e diverse casse di
denaro. Centosessantanove milioni di dollari si dice. Lui ovviamente nega. Aveva
imparato a manipolare la politica dai suoi mentori che l’hanno spinto, promosso
e sostenuto alla carica anche con le armi, quando nelle presidenziali del 2009
la vittoria risultava pesantemente macchiata da brogli. Abdullah, l’avversario,
riceveva l’appoggio d’un copioso numero di signori della guerra che gli avevano
garantito voti a fiumi. Però la Commissione Elettorale assegnò il successo allo
“studioso” della Columbia University, ritenuto dallo sponsor americano più
presentabile per la farsa geopolitica messa in atto. Si trattava pur sempre
d’un presidente-fantoccio, come il predecessore, ma l’aria di esperto di
finanza e le velleità intellettuali lo facevano vendere bene agli occhi della
comunità internazionale, anche quella che partecipava alla Isaf Mission e sborsava denaro per gli aiuti al Paese. Abdullah non
voleva far la figura del raggirato e mise all’erta le bande dei Warlords,
pronte ad agire di kalashnikov e granate.
Fecero da pacieri Karzai
stesso,
che con quest’ultimi aveva confidenza non foss’altro per averne insigniti alcuni con
cariche di governo, e la Cia che usò suoi reparti speciali a protezione del
presidente prescelto. Costui, dopo un avvìo senza enfasi, iniziò a calarsi nel
ruolo e a ben giostrare affari propri in quelli della nazione. Del resto aveva
visto all’opera Karzai, clanista che faceva proteggere il business del fratello
narcotrafficante dalle stesse Intelligence occidentali presenti in loco. Ghani
però non aveva le entrature del gruppo Popalzay, brigava più nei Palazzi delle
multinazionali interessate agli affari sul sottosuolo. S’impegnò molto per il
progetto dell’oleodotto Tapi: 500 milioni di dollari l’anno per diritto di
passaggio sui settecento km di tubi in suolo afghano, in un percorso che dal
Turkmenistan deve portare gas all’India. Da quegli introiti, come per i
contratti sottoscritti anni prima da Karzai con la cinese China Metallurgical Group
Corporation, potevano scaturire consistenti storni di denaro sui conti privati
presidenziali. Questo furbetto vanaglorioso s’ingegnava a scrivere con la mano
destra Correzione dello Stato fallito (è
un suo saggio) mentre allungava l’altra sugli aiuti internazionali, costretto a
spartirli coi boss della guerra e degli affari che, a seguito del primo
incidente sull’elezione, aveva imparato controvoglia a ingraziarsi. Da alcuni, l’orso
uzbeko Dostum, ha ricevuto i servigi armati fino a quando l’ex generale è rimasto sobrio e non è dovuto riparare
all’estero dopo stupri e risse fra clan. Iracondo, pettegolo, ma anche
introverso o fintamente populista, quando veste abiti della tradizione locale
nei quali compare come una maschera carnascialesca, Ghani ha gestito male anche
gli ultimi mesi del disfacimento. Ha scontentato militari nelle caserme e
civili nel Palazzo, rimpiazzando competenze con personaggi servili. Ha permesso
che proseguisse la stessa corruzione che al primo insediamento aveva annunciato
di combattere. E’ questo ceto che i giovani afghani in rivolta dovrebbero
ricordare sollevando la bandiera d’uno Stato che non c’è.
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