L’inviato speciale Khalilzad - dopo sei giorni di fitti colloqui
in Qatar coi talebani e nella possibilità d’un vicino accordo, su indicazione
del suo boss il Segretario di Stato
statunitense Mike Pompeo - è atterrato a
Kabul. Deve parlare col presidente Ghani e convincerlo che ciò che i taliban
vogliono: escluderlo da qualsiasi funzione attiva in merito al possibile
accordo, sia un bene per l’intero Paese. Cesserebbe, almeno sulla carta, un
conflitto durato 17 anni e tre mesi, sebbene resti ancora aperta la questione
del ritiro delle truppe straniere. Un altro punto su cui la guerriglia non
transige e che vede da ieri l’Italia possibilista con la ministra Trenta. Ma
certe decisioni non si prendono a Roma, sarà Washington a valutare la chiusura
del Resolute support. Ai talebani risulta
più praticabile non fornire aiuti sul proprio territorio al jihadismo di Qaeda
e dell’Isis, seppure sul tema devono pronunciarsi anche i gruppi fratelli e
rivali sostenuti dal Pakistan. Comunque per questa concessione i turbanti richiedono
l’ingresso di propri rappresentanti in un governo a interim, notizia riferita
da fonti talebane e non confermata da nessun portavoce americano. Gli informati
sostengono: ancora per poco. E’ sicuramente questo l’ennesimo boccone avvelenato
che Khalilzad offre a un presidente fantoccio, sempre più bistrattato dalla
Casa Bianca.
Il faccia a faccia di questi giorni a Kabul potrà fornire ai
colloquianti di Doha, che hanno già fissato un nuovo appuntamento per il 25
febbraio, il polso della situazione nei palazzi della capitale afghana, non a
caso in questa fase risparmiati da autobombe e kamikaze. Ma la tregua potrebbe
non durare a lungo. O Ghani si sottometterà del tutto alla strategia
tratteggiata dagli Usa, con tanto di sua personale marginalizzazione e
umiliazione o probabilmente torneranno gli assalti nel cuore della città, anche
in quella maggiormente vigilata. Del resto la parte talebana più intransigente
prosegue le offensive in periferia e punta a firmare un accordo di pace col massimo
controllo territoriale. Attualmente è
presente nella metà delle province, e il
controllo tende a crescere e vuole crescere. Washington ha fatto capire a Ghani
che il patto di pacificazione è alternativo alle elezioni. E il presidente, che
puntava a rilanciare il suo incarico in occasione del rinnovo elettorale, non ha
davanti a sé margini di trattativa, inviso ai taliban e snobbato dagli americàn.
In un recente viaggio estero, con conferenza stampa in Svizzera, ha dovuto
ammettere che dall’inizio della sua presidenza (2014) hanno perso la vita in
agguati e attentati ben 45.000 fra militari e poliziotti.
Chi maggiormente si dispera per quanto appare
all’orizzonte sono le donne, anche quelle note che siedono in Parlamento. Vedono
che la regressione è nell’aria. Finora le pochissime attive in ruoli
professionali, negli spostamenti, oltre a vestire il tradizionale burqa,
dovevano essere accompagnate da un maschio di famiglia. Per non parlare delle
più elementari condizioni esistenziali, anche muoversi per andare al mercato
prevedeva quel genere di scorta. Le cose potranno peggiorare. Già sono partite
le lamentele di non fare del processo di pace un obiettivo da conseguire,
ancora una volta sulla pelle delle donne. Ma chi può garantirlo? Non l’attuale
governo messo ai margini dai due dialogati e sempre servile coi fondamentalisti.
Gli stessi uomini favorevoli al dialogo che lavorano con lo staff di Khalilzad
non s’occupano certo di diritti e diritti di genere. Dovrebbero farlo i
talebani folgorati sulla via di Kabul? E’ difficile pensarlo. Così il ritorno
al passato è dietro ogni angolo, seppure non si dimentica come sotto Karzai e
Ghani le limitazioni alle scuole per bambine e ragazze sono stati frequenti,
l’hanno testimoniato per anni ong locali come Afceco. Mentre le case rifugio di
Hawca per donne abusate subivano persecuzioni dai democratici governi locali, sostenuti
dall’Occidente.
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