Cos’hanno in comune Gika, Shady, Stokoza, Taher? La più brutta delle
cose: la galera. E che galera, le carceri speciali che gli procura il
presidente Sisi e quella repressione con cui opprime la grande nazione araba.
Il suo pensiero fisso è rivolto alla gioventù d’Egitto. Fa di tutto per
intimorirla, perseguitarla, angosciarla, rovinarle presente e futuro. Lo fa in maniera
sistematica da cinque anni, forte del consenso d’una parte del Paese che si
piega ai militari perché li ha in famiglia, ci lavora grazie ai mille gangli
che le Forze Armate hanno nell’economia egiziana. Oppure perché si schiera con
chi possiede le leve della forza. Il resto dei cittadini - l’altra metà della
nazione, laica o islamica che sia - hanno
sotto gli occhi l’operato del golpismo autorizzato del generale Sisi e si stanno
ricredendo. Però ora hanno difficoltà a dissentire. Non gli è permesso, anzi se
solo provano a evidenziare una disobbedienza al sistema corrono rischi
altissimi e protratti nel tempo.
Ahmed Gika, che ora ha ventidue anni, venne fermato per la
prima volta cinque anni fa da un gruppo di poliziotti in un controllo
routinario. Gli sequestrarono il poco denaro che aveva in tasca e il cellulare,
spulciando fra i suoi contatti. Gli agenti volevano sapere dove vivesse. Da
quel momento lo tennero sotto controllo e quando incappò in una nuova retata
venne picchiato e condotto in una stazione di polizia. Fu trattenuto lì per
alcune settimane, quindi trasferito in un campo di detenzione dopo un
interrogatorio effettuato da tre procuratori che lo accusarono di aver
manifestato. Venne a sapere che per tornare in libertà avrebbe dovuto pagare
una multa di 100.000 lire egiziane (circa 5.000 euro). Ma Ahmed, che studia
informatica all’università, proviene da una famiglia proletaria, il padre
lavora nei campi, la madre è una casalinga, in casa non c’è una cifra simile
con cui riscattarlo. Resta, dunque, recluso fino all’esaurimento della pena. Nel
2017 se ne sta seduto in un caffè assieme a tre amici.
Rispunta un manipolo di agenti della Sicurezza
nazionale che li insulta, li picchia e li trasferisce nell’ennesima stazione di
polizia. Senza conoscere le accuse i quattro vengono interrogati da un
magistrato che gli infligge quattro mesi di detenzione. Quattro ciascuno. Quest’altalena
fra fermi, uscita su cauzione impossibile da pagare, detenzione e rischi di
finire in un giro repressivo peggiore assilla Gika da mesi e non gli permette
di proseguire gli amati studi con cui proverebbe a emanciparsi da un lavoro
manuale come quello paterno. Però nell’Egitto di Sisi si finisce dentro anche
se si è benestanti. Il caso del blogger Shady Abu Zeid, la cui famiglia
appartiene alla buona borghesia cairota, va a confermarlo. Quel che dice e
scrive Shady non è gradito ai controllori di regime, così il giovane s’è
ritrovato i mukhabarat alle calcagna
ed è stato arrestato. La repressione segue percorsi interclassisti, se non sei
ossequioso verso il modello militare rischi comunque. Così anche l’artista
Ahmed Stakoza ha conosciuto le stazioni di polizia, dove non si staziona con le
mani in mano.
Queste spesso sono legate dietro la schiena. Se ci si agita, oltre
a subìre una “battitura tranquillante”, si finisce appesi a testa in giù, mani
e piedi legati, nella posizione definita del pollo, assai in uso nelle galere
sul Nilo. Il regime, che ha a cuore la sorte della gioventù ribelle, si rivolge
anche ai professionisti, è il caso del medico Taher Mokhtar, trattenuto,
maltrattato, arrestato come le ‘teste calde’. Niente niente questi
professionisti avessero in mente di seguire le orme degli attivisti, e
giornalisti, e avvocati dei diritti che anni addietro manifestavano in ricordo
della Thawra del 25 gennaio
2011. Potrebbero tuttora finire come
Shaima al-Sabbagh, colpita a morte e deceduta fra le braccia del consorte,
mentre con un gruppetto di socialisti pensava di deporre fiori a Tahrir per celebrarne
i martiri. Era il 2015 e il clima molto è peggiorato da quei giorni di per sé
mortali e insanguinati. L’anno seguente, nel buio del Cairo rivisitato dal
generale Sisi, spariva Giulio Regeni che da mesi cercava di capire cosa stava
diventando quel Paese. Una storia già scritta nel sangue dal 14 agosto 2013, diventata mese via l’altro sempre più oscura. Oggi, accanto agli scomparsi d’Egitto,
marcisce una gioventù malversata e oppressa cui occorre dar voce e aiuto.
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