La vicenda della
Supercoppa italiana di calcio da giocarsi nuovamente all’estero - e che estero:
quell’Arabia Saudita da anni al centro di polemiche per quanto fondamentalismo
wahhabita finanzi, per quanta repressione interna e nella regione mediorientale
produca - ripropone il meschino orizzonte del tornaconto di certe istituzioni
sportive. In questo caso la Lega Calcio di serie A, nata un decennio addietro
da una scissione, voluta dai Paperoni del pallone, dell’antica Lega Nazionale
Professionisti che viveva dal secondo dopoguerra. Ricordare quest’operazione
pilotata dai grandi club che disdegnavano la “zavorra” delle società di provincia,
diventa necessario per capire il presente. Sempre più orientato sull’affarismo
sfrenato che usa lo sport come un alibi, tanto da non risolvere i cento e uno
problemi che affliggono un sistema dove ormai si praticano: riciclaggio, frode
sportiva e non, doping, evasione fiscale, copertura di fenomeni violenti
attuati da frange politiche neofasciste infiltrate fra le tifoserie. Coi governi e il
Parlamento nel ruolo di Ponzio Pilato. In realtà buona parte di questi veri e
propri tumori del calcio e dello sport, erano presenti anche prima della
riforma del 2010, e riguardano soprattutto le grandi società. Ora la Lega,
guidata da un presidente-banchiere rampollo d’una potentata famiglia
palermitana, porta la finale fra Juventus e Milan nella cittadella dello sport
che gli sceicchi sauditi hanno creato a 60 km dalla città di Gedda. Lo fa per
interesse. Quel Paese, reso ricchissimo dai petrodollari a tal punto farli
pesare potentemente nella geopolitica mondiale, offre ingaggi da capogiro per
ospitare ogni sorta di manifestazione che serve fra l’altro a far
familiarizzare il mondo degli spettatori con una nazione dai costumi a dir poco
reazionari. Eppure nel gruzzolo milionario, ancor più golosi della Lega risultano
i club. Son loro a spartirsi, fifty-fifty,
il 90% dei 7 milioni di euro contabilizzati anche tramite i diritti televisivi.
Alla Lega va il restante 10%. Premesso che i diritti televisivi si sarebbero
incassati anche altrove, è il ‘non mostrato’ a rappresentare il benefit per
presente e futuro. Anche l’Italia sportiva, con la Lega Calcio, coi due
prestigiosi club, apre le porte alla diplomazia della chiacchierata
petromonarchia che, fra un Grand Prix e un match, tuttora lapida e fustiga le
donne. Si accondiscende all’abbraccio dell’inquietante principe bin Salman su
cui pesa il recente omicidio d’un giornalista, fatto a pezzi all’interno del
consolato saudita di Istanbul. Le polemiche sull’impossibilità delle nostre tifose
di accedere da sole al “Re Abdullah Stadium” o farlo indossando il velo, e
l’esatto contrario: a loro verrebbe permesso ciò che alle donne saudite non è
consentito, sono falsi problemi. Nonostante la maschera della modernizzazione
del progetto ‘Vision 2030’, il sistema saudita resta oppressivo e criminale. Ma
c’è chi sottolinea una cruda verità: il business del calcio nostrano segue quel
che da tempo fanno le nostre imprese. E i 23 milioni di euro per tre finali sono
bazzecole rispetto al baratto: barili di greggio in cambio di armi da usare, ad
esempio, sui ribelli yemeniti. Una certezza è lampante: l’Italia affaristica dà
sempre il meglio di sé in ogni incontro.
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