Dopo esser stata reclusa in luoghi segreti che non sono prigioni,
dov’era stata condotta da agenti della National Security Agency con un
prelevamento forzato, l’avvocato dei diritti l’egiziana Hoda Abdel Moneim è
comparsa ieri davanti a un giudice. L’udienza non ha avuto conseguenze, ha
semplicemente rimandato l’accusata a una nuova comparizione. Ma accusata di
cosa? Di aver difeso altri accusati: attivisti dei diritti, spesso giovani e
addirittura minorenni, colleghi e giornalisti, che sono le categorie oramai
sotto il tiro del regime che per anni s’è sfogato con gli oppositori. Ma la
sessantenne Hoda ha un’altra colpa: essere moglie d’un collaboratore del
deposto presidente Morsi, anche per questo è finita nella retata lanciata con
zelo dagli apparati della “sicurezza” contro i familiari di membri della
Fratellanza Musulmana finora risparmiati dalla repressione. Ovviamente dietro
input del ministro dell’Interno Ghaffar, il mandante col generale Sisi
dell’omicidio del Regeni italiano e dei molti Regeni d’Egitto.
La fama di legale battagliera e di donna coraggiosa sta
preservando Hoda da trattamenti peggiori, quelli denunciati dai suoi stessi
assistiti (violenza e tortura), ma la mattina del 1° novembre quando una
squadra di mukhabarat ha visitato la
sua abitazione a Nasr City, sobborgo del Cairo, non è stata certo riguardosa
della privacy. Lo testimoniano le foto scattate successivamente dalla figlia che
qui pubblichiamo, e le sue domande su dove conducessero la madre sono rimaste
per settimane senza risposta. La polizia non ha concesso informazioni neppure a
Human Rights Watch, che coi suoi avvocati
aveva chiesto i motivi delle retate che fra la fine di ottobre e i primi di
novembre scorsi avevano provocato il fermo e la sparizione di un’ottantina di
persone. L’ong internazionale, tramite suoi canali, aveva constatato il
prelevamento certo di quaranta. Di altri non si sa neanche il nome. Sono attivisti,
avvocati e familiari di esponenti della Fratellanza Musulmana. Qualcuno era
parente di leader famosi, come nel caso di Aisha Khairat al-Shater, figlia del
vicepresidente della Confraternita e famoso imprenditore, fra i primi del Gotha
del partito islamista a finire ai ferri.
Essere anche solo conoscente di qualche militante
della Brotherhood diventa un pericolo. Ma la stessa vita quotidiana, i momenti
privati, gli incontri, i convivi, seppure svolti in luogo appartato, vengono
perseguitati cosicché chi li vive desista definitivamente da frequentare gente
e posti. Denunce di avvenimenti come quello descritto ad alcuni volontari che
monitorano la violazione dei diritti dell’uomo sono ricorrenti. La scorsa
estate, nel pieno centro della capitale egiziana, mentre erano riuniti in un locale
apparentemente sicuro, un club privato, alcuni esponenti dell’opposizione a
Sisi che banchettavano con amici e parenti hanno dovuto subìre l’irruzione
d’una ventina d’energumeni. Questi li hanno minacciati, hanno rovesciato stoviglie
e sedie, messo a soqquadro l’intera tavolata. I camerieri del locale rimanevano
impietriti, la direzione non ha opposto resistenza né protestato. I presenti
non si son fatti irretire dalla provocazione, immaginando che una reazione gli
avrebbe creato danni ben peggiori con l’arresto. Si può supporre che gli
energumeni fossero agenti in borghese. Molto più facilmente si tratta dei
famigerati baltagheya, picchiatori da
strada di cui la polizia si serve per intimidire persone e incastrarle con
aggressioni dirette e indirette.
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