martedì 8 gennaio 2019

Futuro afghano: si discute in Qatar


Il tavolo si tiene a Doha ed è frequentatissimo. Il mese scorso ha visto la presenza di sauditi, pakistani ed emiratini, non degli iraniani il cui interesse per le vicende afghane è sempre elevato, ma non partecipano per il veto americano. Ora i colloqui sulla persistente occupazione militare che determina l’insorgenza telebana, vivranno due giornate di confronto; però solo fra taliban e statunitensi con Zhalmay Khalilzad nella veste di gran maestro di cerimonie. Dunque, fra i turbanti prevale la linea dura che punta a chiudere le porte in faccia al governo di Kabul, considerato un manipolo di pupazzi che gli studenti coranici attaccano, denigrano, umiliano. Non gli riconoscono alcun ruolo se non quello d’essere servitori delle truppe Nato, senza le quali sarebbero da tempo stati spazzati via dall’insorgenza. Una verità evidenziata dai continui attentati fin dentro i palazzi del potere o dalle occupazioni di città e campagne che solo i fitti bombardamenti attuati dall’aviazione statunitense riescono a liberare. Tutte azioni che producono migliaia di vittime civili. La mancata presenza, diretta o per interposta persona, al tavolo delle trattative preoccupa non poco il presidente uscente Ghani, soprattutto in vista delle presidenziali del prossimo mese d’aprile.
La consultazione potrebbe venir rinviata anche a seguito dell’impasse creatasi dopo il recente voto politico di ottobre che vede l’indefinitezza della conta, polemiche sui brogli, un intoppo dell’organizzazione elettorale principalmente nello spoglio delle schede. Probabilmente al rinnovo di cariche fantoccio com’è quella presidenziale - vanificata da due mandati di Karzai, uno di Ghani e una fase d’attesa in cui s’è rischiato uno scontro armato fra i sostenitori dei contendenti (Ghani e Abdullah poi cooptati entrambi per constatare che nulla funziona) - non crede più neppure il Congresso statunitense. Sebbene le sue espressioni politiche, con quattro amministrazioni divise fra Bush jr e Obama, abbiano tenuto in loco l’apparato della forza e dello spreco che ha bruciato in circa due decenni un trilione di dollari, seminando morte con decine di migliaia di vittime e non risolvendo nessuno dei problemi che affliggono il Paese e la sua popolazione. Anzi. L’attuale inquilino della Casa Bianca procede in ordine sparso lì e in altri punti caldi del Medioriente e del mondo. Lo stesso Pentagono è propenso a un ulteriore alleggerimento delle truppe di terra (degli attuali 13.000 uomini potrebbero restarne 7-8000), tanto il servizio di pattugliamento possono continuare a farlo i mercenari, uomini armati non contabilizzati ufficialmente, ma definibili fra le venti e le quarantamila unità.
L’attuale fase gli Stati Uniti l’hanno messa nelle mani d’un afghano americanizzato come mister Khalilzad. Un pashto oggi sessantottenne, nativo del nord, nell’affascinante Mazar-e Sharif, che durante gli studi nel liceo di Kabul ha svernato in stage californiani. Quindi è passato all’Università americana di Beirut, dove si formano molti diplomatici mediorientali che vengono coptati dagli Usa. Durante la frequentazione della Columbia University, Khalilzad conobbe Zbigniew Brzezinski, think tank di razza agli ordini, un tempo di Lyndon Johnson, e in quella fase di Jimmy Carter. Sotto quest’ultima amministrazione il polacco-americano mise a punto l’operazione di armamento e sostegno dei mujaheddin che combattevano i sovietici in Afghanistan. Khalalizad gli fu al fianco in quella che gli annali strategici ricordano come ‘operazione Ciclone’. Uno degli interventi più costosi messi in atto dalla Cia, con un budget che crebbe esponenzialmente del decennio 1979-1989, toccando nel 1987 i 630 milioni di dollari. Bazzecole per quella che sarebbe diventata l’industria bellica del nuovo millennio. L’operazione era articolatissima: venne avvicinato il regime militare pakistano del generale Zia-ul Haq per sostenere i gruppi più fondamentalisti d’oltreconfine.  Insomma il bagaglio di Khalilzad in fatto di rapporti col jihadismo è robustissimo, come pure riguardo alle velleità doppiogiochiste degli attori presenti a ogni tavolo di trattative geopolitiche.
Attualmente i taliban vogliono condurre in prima persona la partita e mettono i piedi nel piatto alzando la posta. Rivendicano: ritiro totale delle truppe statunitensi, scambio di prigionieri, rimozione del divieto di movimento dei propri leader, probabilmente oltre l’area delle Fata sul confine pakistano. Non sembrano volere l’azzeramento delle basi aeree, l’unico, e non certo secondario, punto a favore dell’occupazione Nato, perché sanno che Washington non lo concederà mai. In una nazione pacificata o meno, grazie a quelle basi i generali del Pentagono continuano a monitorare e possono intervenire, nel cuore del continente asiatico a un passo da Russia, Cina, Iran, in qualsiasi momento. Il resto delle richieste può diventare contrattabile e i turbanti potrebbero spuntarla su vari punti. Una loro desiderata resta controversa: la totale delegittimazione d’un governo autoctono al servizio dell’Occidente. Anche su questo il movimento talebano appare intransigente, a tal punto da non volere (e ciò gli viene accordato) nessun rappresentante di Kabul alle trattative. Ma per accontentarli definitivamente gli Usa dovranno rinnegare un disegno ventennale, ammettendone di fatto il fallimento. Non è detto che non lo facciano, al Pentagono può bastare un controllo dall’alto, mentre nei palazzi della politica possono rientrare i fondamentalisti. Del resto nella penisola araba è così e, formalità a parte, l’estremismo coranico non è mai stato sradicato dalla cultura delle istituzioni afghane.

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