venerdì 16 dicembre 2016

Due uomini di fronte ad Aleppo

Due foto. In una c’è l’uomo posato, lo statista, secondo altri il satrapo, parla di vittoria storica per la ripresa della sua Aleppo che non gli era amica ben prima che ribelli e jihadisti ne facessero una frontiera contro il suo potere. Lui è nel Palazzo di Damasco, protetto da guardie fidate, una casta chiamata élite; da lì continua a difendere il ruolo di Presidente di una Siria in dissoluzione. Non solo e tanto perché i giocolieri del Medio Oriente vogliono disarcionarlo e complottano contro di lui. Ma perché un pezzo di quel popolo che deve governare – quello islamico e sunnita – gli ha girato le spalle e ne contesta i privilegi. Non è tutto così semplice e schematico nel Paese che ha una ricchissima storia antica e una moderna, percorsa da eventi ordinari prima che luttuosi. Però non è sul cammino e sulle cause di quella che, definita guerra civile e diventata da tempo carneficina, si soffermano queste righe. Vanno diritte a quel che c’è dietro le foto, una visione sfavorevole al siriano senza Siria e senza futuro, rattristato nella prossima condizione di profugo in patria o fuori.
Quest’uomo disperato piange per un’esistenza che non ha più o non potrà più avere, seppure l’altro, il Presidente, fiducioso nella vittoria finale gli promette di rilanciare la nazione più forte e bella di prima. Comunque l’uomo con la kefia è impaurito. Magari teme le vendette dei lealisti, che potrebbero considerarlo un ribelle, un fiancheggiatore diretto o indiretto del jihadismo che ha distrutto la Siria del tempo recente. Niente può essere come prima in una nazione che conta 400.000 cadaveri, sette milioni di profughi, un territorio diviso in quattro o più aree controllate da signori della guerra con gli scarponi in terra, mentre sulle teste volano i controllori del cielo dispensatori di morte. Siriani disperati, ad Aleppo e in ogni scenario di guerra, sono rimasti intrappolati per mesi, per anni, ostaggi delle fazioni. Avevano la sola colpa d’essere nati in quei luoghi non volerli abbandonare. Se i due uomini mai dovessero guardarsi potrebbero parlare? E dirsi cosa? Cosa può raccontare questo Presidente a un cittadino, che lui vuole suddito, per motivare il disastro in corso e la rinascita d’una nazione?

Una soluzione, ventilata dai suoi nemici, è quella d’un suo farsi da parte, rinunciare a una carica che non ha più senso se non per sé e i suoi fan, che non sono l’intero popolo siriano. Milioni ormai sparsi in cento rivoli di dolore. Ma l’uomo posato, e soprattutto i suoi protettori, escludono un simile passo, che ovviamente può favorire i nemici. Così tutto è stato fermato tranne la morte. Quella di chi combatte sui vari fronti, l’odiato ribelle multiforme, e quello dei fedeli al Capo non più di Stato bensì di clan. Soprattutto non s’è fermata la fine di chi ha l’unica colpa di non parteggiare per nessuno. Gente odiata ancor di più, perché quei volti smunti di bambini frastornati, donne straniate, vecchi marciti nella polvere, rappresentano un peso per ogni combattente. Sono la zavorra con cui i prigionieri di ideologie e teologie non vogliono fare i conti; secondo  propri fanatismi, a ogni costo, non vogliono chiudere anzitempo il conflitto. Non vogliono perché sanno che la soluzione finale non gli darà scampo, perciò tormentano gli inermi dicendo di difenderli. Se in Siria muore ogni pietà, non siamo fra coloro che lo giustificano e assolvono combattenti e mandanti. Su questi pesa il giudizio della Storia che scrive il suo epicedio solo per i civili. 

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