mercoledì 7 dicembre 2016

Fatah: una deriva senza meta


Pungente, e in alcuni tratti tagliente, la valutazione offerta dall’emittente Al Jazeera sul recente congresso di Fatah, tenuto a Ramallah dal 29 novembre al 4 dicembre scorsi. Un’assise che per la tivù qatarina (ovviamente più vicina ad Hamas) ha riproposto come fulcro nella politica del partito e nei ruoli di presidente e leader dell’Autorità Nazionale Palestinese non tanto l’ombra, ma la sostanza  dell’ottantunenne Abu Mazen. Presenza ingombrante, non desiderosa di passare la mano ora che si vocifera di possibili elezioni per quegli incarichi. Il partito che raccoglie anime ribelli e rivoluzionarie e soggetti della più inamovibile burocrazia politica, epigoni della diaspora dei capi profughi e notabili milionari ha rinnovato l’elezione d’un establishment orientato al maschile con 18 membri del Comitato centrale ultracinquantenni collocati in gran parte in Cisgiordania, dei quattro rappresentanti della Striscia di Gaza, tre vivono nella West Bank. Rispetto a quanto visto dal 2009, fase successiva allo scontro fratricida con Hamas interno ai territori palestinesi, è venuta meno l’alleanza fra il grande vecchio successore di Arafat e l’ambizioso e ambiguo rampante del gruppo: Mohammed Dahlan. Anzi, le votazioni interne hanno sensibilmente premiato un ex avversario di quest’ultimo, Jibril Rajoub, riciclato nel ruolo di ambasciatore dello sport quale presidente della Palestinian Football Association. Secondo indiscrezioni Rajoub avrebbe ricevuto pi preferenze dello stesso Abu Mazen. Ma per l’emittente di Doha si tratta di questioni marginali, visto che Dahlan è ritenuto un personaggio non più spendibile per la leadership, sia per i trascorsi di conflitto aperto con Hamas e per la spregiudicata collaborazione con Cia e Shin Bet, sia per la recente prossimità con l’autoritarismo di Sisi, rivolto contro la micro economia dei tunnel, praticata da gruppi di gazawi. Insomma Fatah è giudicato ancora come clan di potere monolitico che perpetua, a suo totale disonore, quella real politik sul cui altare ha sacrificato il diritto al ritorno. Una macchia giudicata indelebile su un princìpio considerato irrinunciabile da molti.

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