lunedì 12 dicembre 2016

Attentato a Istanbul: arresti preconfezionati

E’ nel gesto del capitano del Galatasaray Inan, che si porta al centro del campo un giovane poliziotto e l’abbraccia, l’anticorpo che il governo turco cerca di iniettare fra i concittadini. Usa il collante del popolarissimo sport, una squadra simbolo dell’élite della città da cui partì il sogno di potere erdoganiano, utilizza certamente l’ambiente ufficiale del club che pure vide la tifoseria segnare un patto di ferro con le altre formazioni cittadine: l’anarchica e popolare Beşiktaş e quella considerata “straniera” del Fenerbahçe (per il seguito che ha fra la comunità greca). Tutt’e tre le calde curve della stella del Bosforo riunite a sostegno della battaglia di Gezi park contro la foga  repressiva di Erdoğan. Accadeva tre anni fa, sembra trascorso un secolo. Ma ora che il giocattolo dorato del pallone è stato sfiorato dalla morte, colpendo i custodi d’una sicurezza di cui la Turchia è priva, il lutto nazionale coagula il Paese. Gli stessi fan giallorossi della squadra del Gala, partecipano al video promosso dal ministero dell’Interno a difesa dei suoi ragazzi caduti. Altri ne sono morti in queste ore, le vittime diventano 44.
Mentre investigatori e magistrati non si pronunciano ufficialmente e i commentatori ribadiscono la matrice della dissidenza guerrigliera kurda nell’attentato di sabato sera (attribuito ai cosiddetti Falconi della libertà), il governo coglie l’ennesima occasione per colpire la componente politica, e chissà per quanto ancora legale, della comunità kurda: il Partito democratico dei popoli. Nelle sue sedi di Mersin, Adana, Manisa oltreché Istanbul e Ankara, gli agenti sono andati a pescare membri, quadri e simpatizzanti.  Altre centoventi persone sono state arrestate e, non potendo essere accusate dell’attentato, sono tutti incriminati a titolo ideologico per aver sostenuto il Pkk. Imputazione già usata in centinaia di casi, che mette ai ferri chi richiama la comune matrice etnica d’appartenenza che possono avere i kurdi. In questo lo Stato turco ormai prende la via breve: accorpa chiunque, chi combatte sui monti e chi siede in Parlamento dopo una democratica elezione, cercando di soffocarne azione e pensiero. E’ quanto è accaduto ultimamente anche a Selahattin Demirtaş, leader del partito accusato d’essere il volto legalitario del Pkk di Öcalan.

Una posizione accentuata dall’estate 2015, quando esercito turco e combattenti kurdi hanno ripreso una guerra strisciante riversata pesantemente nel sud-est con occupazione, stati d’assedio, massacri di civili. E anche in altre zone del Paese dove si ripetono assalti mirati a ufficiali e soldati, più il genere di attentati come quello nei pressi della Vodafone Arena di Istanbul. Ben oltre lo scontro di carattere militare, il governo rivolge i suoi strali contro ogni opposizione, concentrandosi su quella ritenuta politicamente pericolosa per i piani parlamentari di Erdoğan. Seppure la proposta di revisione costituzionale, che sta trasformando la Turchia in una repubblica presidenziale, è ormai messa al sicuro grazie al sostegno del partito nazionalista, il Capo di Stato non perde occasione per polverizzare la rappresentatività costruita a piccoli ma significativi passi dall’opposizione kurda. Lacerare quella rete, lasciare il territorio dove la comunità vive senza i sindaci che ha eletto, privarla dei parlamentari che votano norme o s’oppongono a esse, ha l’intento di togliere voce e guida a un movimento che in questi anni s’è posto in prima fila per ostacolare il passo autoritario che fa della Turchia un mondo a dimensione d’un solo  uomo. Assetato di potere.

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