Via
dall’Afghanistan, ma non del tutto. Chi torna a casa sono 40.000 militari (32.000
statunitensi) della missione Isaf che conclude il suo ciclo di tredici anni di “guerra al terrore”
dagli esiti disastrosi. Ufficialmente ha lasciato sul terreno 3.500 suoi uomini,
ma ci sono anche i cadaveri non conteggiati di contractors impegnati in svariate
occasioni soprattutto incursioni, rappresaglie, rapimenti. L’intervento ha
seminato morte non solo sull’insorgenza talebana, che in alcune province del
sud-est ha aumentato una presenza e un rapporto con le popolazioni locali
proprio a seguito dei bombardamenti generalizzati responsabili di migliaia di
vittime civili. Quante siano state dal dicembre 2001, data di avvio della
“missione di pace” Enduring freedom, non
è possibile calcolarlo per la difficoltà oggettiva nel raccogliere dati certi. Ufficialmente
le statistiche menzionate dall’United
Nations Assistance Mission of Afghanistan parlano di migliaia di morti (5.000
solo nel 2002, i dispacci Nato li definiscono “danni collaterali”) di poco
inferiori a quelli provocati dai quattro sanguinosissimi anni (1992-96) di
guerra civile interna. Le stragi del disonore, come quella di Shinwar compiuta
nel marzo 2007 dalla 120a marines che mitragliava passanti sfogando la propria rabbia
per un attentato subìto, si sono ripetute nel tempo.
La
missione - che attivisti democratici afghani
(Malalai Joya o alcuni membri di Hambastagi Party, da noi intervistati in varie
occasioni) denunciano come “odiosa occupazione straniera” - proseguirà con
medesimi scopi geostrategici. La presenza, prevalentemente americana, sarà
denominata Resolute support e
dislocherà ufficialmente 12.500 uomini nelle diverse basi aeree (Kabul, Bagram,
Kandahar, Camp Marmal, Herat, Mazar-e-Sharif, Jalalabad, Khost) dove
continueranno a partire Falcon e droni per azioni “antiterroristiche”. I
militari Nato proseguiranno anche il ruolo di addestratori delle truppe dell’Afghan
National Army che ammontano a 350.000 uomini. Soldati finora poco affidabili,
infiltratissimi dai guerriglieri talebani capaci di realizzare attentati in
caserme blindate della stessa Kabul. Nonostante i pericoli la divisa attira
giovani reclute soprattutto per ragioni economiche: guadagnare 400-500 dollari
mensili, seppure a rischio della vita, è nell’Afghanistan odierno un’opportunità
cui ventenni senza speranze non rinunciano. L’alternativa è far parte delle
milizie private dei Warlords, oppure aderire all’insorgenza dei gruppi
talebani. Nel primo caso con un salario, nel secondo non sempre. Il panorama
che la missione Isaf si lascia alle spalle è quello d’un Paese tutt’altro che normalizzato.
Non sul
fronte della sicurezza, visto che solo negli ultimi dieci mesi ha dovuto contare
la perdita di ben 4.600 uomini; attacchi e attentati si susseguono sin nel
cuore dell’area proibita della capitale, teoricamente difesa da check point, muraglie,
cavalli di frisia, pattugliamenti. Non sul versante economico, perché nell’infinità
di miliardi di dollari spesi durante la missione (gli Usa hanno toccato picchi
di 30 miliardi di dollari l’anno, l’Italia impegnata dal 2003 ha mantenuto fino
a 4.300 militi con fondi che sfioravano il miliardo di euro, per una media
annuale di 750 milioni) nulla è stato indirizzato verso una rinascita
produttiva (agricola o d’allevamento) e ovviamente niente verso il terziario di
servizi, rimasti sempre un sogno. Nessun lavoro legale, solo arte
dell’arrangiarsi. La stessa attività estrattiva di minerali ricercatissimi (le
famose terre rare) per l’industria dell’hi-tech, che fanno gola a potenze
vecchie (Usa e Gran Bretagna) e nuove (Cina) e che i governi “democratici” di
Karzai e ora Ghani continuano a concedere a imprese straniere, quasi mai
utilizza manodopera locale. Così aiuti esterni, affarismo illecito legato al
traffico della droga (nei 13 anni d’occupazione occidentale la produzione
afghana d’eroina è schizzata in alto e oggi copre il 95% del mercato mondiale)
costituiscono le uniche risorse, il 60% del Pil.
In questi affari hanno mani in pasta quei signori della guerra che come l’uzbeko Dostum è stato condotto alla
vicepresidenza della Repubblica. Ovviamente non è il solo, altri compari rientrano
negli accordi che vede l’attuale diarchia di Ghani-Abdullah essersi accordata
per il rotto della cuffia, dopo un confronto elettorale irrisolto e zeppo di
reciproci brogli, e dopo aver distribuito armi ai supporter in una sorta di
preparativo di resa dei conti finale. John Kerry ha disinnescato lo scontro con
un accordo che potesse continuare a fornire l’alibi di democraticità del
sistema istituzionale, una maschera che da oltre un decennio ha condotto in
Parlamento e inserito ai vertici dello Stato dei criminali di guerra di lungo
corso. Eppure la quadratura del cerchio sembra non funzionare; dopo tre mesi
Ghani non è riuscito a stilare una lista di ministri, probabilmente per i veti
imposti dalle eminenze grigie che in compagnìa Abdullah si cova in seno. Ora
che buona parte delle truppe Nato si ritira un enorme quantità di materiale
bellico intrasportabile resterà sul posto. Il programma dei mesi scorsi
indicava il rientro di 20.000 container e 24.000 macchine da guerra per una
spesa complessiva di 7 miliardi di dollari. Si tratta di materiale bellico
imponente e importante che per via aerea da Bagram passerà attraverso la
Turchia, giungendo in Germania. E da Kandahar per il Qatar venendo poi caricato
su navi Usa presenti in Bahrein. Verso quelle coste salperanno altri cargo dal
porto pakistano di Karachi, Armi leggere “made in Usa” incrementeranno, invece,
il mercato nero locale, al quale accederanno sicuramente Warlord e turbanti
talebani contro ogni piano di sicurezza presente e futuro.
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