Uno è
Samir Naji, yemenita.
Accusato d’aver servito Osama Bin Laden e per questo rinchiuso per anni nel
super lager di Guantanamo Bay. E lì “trattato” sostiene l’altro, lo
statunitense John Brennan direttore della Cia. Vite indirettamente incrociate nell’angolo
nero dell’isola cubana dove certe pratiche sono diventate scuola di rinnovata
coercizione. Naji racconta i “trattamenti”: decine di particolari che sanno di
sevizie psico-fisiche. Ricorda il silenzio e il gelo della cella, l’assillo d’essere
solo, nonostante le decine di prigionieri messi in fila in attesa degli
interrogatori. Che durano mesi, con le paure crescenti, per quello che può accadere
un giorno via l’altro, perché è in mano a implacabili inquisitori, in balìa del
loro programma e delle variazioni del caso. Privato d’ogni contatto, all’oscuro
della vita di amici e familiari, tutti inesorabilmente lontani. Ogni apertura
di cella introduce angosce rinnovate, simili a quanto già vissuto e
potenzialmente peggiore. Naji rammenta che nei primi mesi di domande seriali
pativa la mancanza di sonno, continuamente interrotto e disturbato, la testa
fluttuava fra decine di quesiti e foto affisse al muro, circostanze e volti da
dover riconoscere. Anche se non era colpevole di nulla, non era creduto.
Confusione
mentale e grida.
Di fronte all’impossibilità di riconoscere quel che gli veniva richiesto,
giungeva “l’uomo dell’angolo” con una siringa sempre pronto a iniettare un
liquido stordente nell’avambraccio. Il rifiuto del pasto in segno di protesta provocava
due soluzioni: la nutrizione forzata via endovena o rettale e la forzosa
umiliazione d’essere trattato come un maiale, col cibo gettato in terra e
l’obbligo di assumerlo in quel modo. In un crescendo d’umiliazione gli impedivano
l’uso del gabinetto, minacciando lo stupro in caso di bisogni corporali finiti
nei pantaloni. E ancora: i trascinamenti con una catena sin dentro pozzanghere
fangose, la nudità forzata e la rasatura a dispetto del credo religioso, la costrizione
di eseguire danze e versi di animali. Sempre sotto minaccia e rischiando il
congelamento. Sino al quasi collasso e al ricovero forzato in infermeria. Il
sistema Abu Ghraib ripetuto e diffuso in decine di carceri speciali e di luoghi
di detenzione illegale sparsi per il mondo. Quattro anni di questa vita per
mister Naji, cui andò bene: i carcerieri riconobbero la sua estraneità a ogni
addebito e venne rilasciato.
Mister
Brennan
sottolinea come tutto sia stato funzionale al progetto di sicurezza attuato
dalla Central Intelligence Agency per
combattere il terrorismo internazionale. Ragioni di Stato. E che ragioni, e che
Stato. Ammette che talune azioni degli ufficiali che presiedevano interrogatori
e detenzione dei sospettati non fossero autorizzate, insomma introducessero una
vena creativa dettata dall’emergenza. Ma niente a che vedere con metodi
illegali. Al limite iniziali impreparazione e inadeguatezza a sostenere queste “tattiche
di lavoro”. Tutto ciò è stato esaminato da commissioni e ispettori anche
interni all’agenzia investigativa, così da consentire al Senato di raccogliere
dati e rendere trasparente ogni comportamento. Sulla forma e la sostanza delle
azioni i pareri divergono non solo fra inquisitore e vittima, ma
nell’istituzione americana che ridiscute certezze d’un tempo. Contrapponendo
l’accusa della senatrice californiana Feinstein, che molto ha voluto il
rapporto sulla Cia, alle teorie scagionatrici di questo direttore che ha
attraversato, pur con ruoli diversi, tre amministrazioni politiche (Clinton, W.
Bush, Obama) cambiando parere sui metodi, ma non rinnegandoli. Ora, nel più
perfetto stile statunitense, sostiene tutto e il suo contrario. Ammette l’uso,
forse eccessivo di alcune costrizioni, che mai e poi mai deve definirsi
abuso.
Nessun commento:
Posta un commento