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metà fra congetture e rumors trapelati dagli ambienti diplomatici alcuni osservatori
internazionali sostengono che fuori dalla facciata del G20 lo staff di Obama
stia provando a prendere “il toro per le corna”. Un toro, che ben oltre
questione Asad, è incarnato dall’Iran che del raìs di Siria è il protettore
secondo il consolidato meccanismo delle alleanze funzionali all’egemonia nella
regione. Il contatto diplomatico americano passa anche per interposte figure,
alcune teoricamente super partes come il sottosegretario generale agli affari
politici delle Nazioni unite Jeffrey Feltman recente visitatore a Teheran del
ministro degli esteri Mohammad Javad Zarif.
Iran, vero nemico o prossimo alleato? – Ovviamente non ci sono comunicati ufficiali, ma
quel che si prospetta sul da farsi o su quanto si potrebbe fare vede l’Iran
oscillare dal ruolo di vero obiettivo da colpire in un intervento di lungo
corso, come vorrebbe e come spera l’establishment israeliano, a quello di
alleato con cui sottoscrivere accordi tattici. Da nazione molto più pragmatica
di quanto la facciano apparire parecchie operazioni mediatiche il Paese degli
ayatollah accetterebbe. Per come s’è spinta in avanti la minaccia
dell’intervento punitivo Obama potrebbe comunque ordinare il lancio di Tomahawk sul suolo siriano anche dopo un
voto contrario del Congresso. Il “beau geste” lo mostrerebbe finalmente
decisionista, laverebbe la coscienza a lui e tanti interventisti “umanitari” senza
preoccuparsi di far cadere Asad. E tutto ciò sarebbe tollerato dal nuovo corso
di Rohani. Secondo ulteriori pareri l’attuale real politik si spingerebbe ben
oltre, coivolgendo la stessa nazione iraniana in cambio d’un ravvedimento
dell’intransigenza Usa sulla scalata nucleare di Teheran.
Jihadisti, nemici comuni – Un nemico comune nell’area mediorientale,
rafforzato dalla caduta di alcuni governi arabi (la Tunisia e l’Egitto dei
raìs) è l’Islam jihadista. Esso trae vantaggio anche dall’indebolimento della
componente moderata e istituzionale come la Fratellanza egiziana, sottoposta al
conflitto con militari e laici e da certo salafismo estremista (Ansar
Al-Shar’ia). Jihadisti e qaedisti sono finanziati e sostenuti dalle
petromonarchie alleate degli States che sanno di giocare col fuoco nei
confronti di questo soggetto politico che persegue una propria strategia, come
testimonia la storia di Osama Bin Laden. Un Medio Oriente che riavvampa dal
Libano, ai Territori Occupati, naturalmente Siria e Iraq già in ampio subbuglio
fino a Kabul, dove Washington a stento tollera di conservare al suo posto
Karzai “talebano”, sarebbe ben visto da un Iran sottoposto a embargo economico
e isolamento politico internazionale. Non perché gli ayatollah siano guerrafondai,
ma perché il loro realismo prende in esame anche un rimescolamento dei rapporti
di forza, violento o minacciato.
Chi combatte chi – Ne scaturirebbe un conflitto articolato anche via
terra, in cui Pasdaran e i sodali Hezbollah combatterebbero contro i
qaedisti liberando le truppe Usa,
ipoteticamente alleate tattiche dell’Iran, dall’incubo dello scontro al suolo sperimento
con l’invasione irachena. Una guerra vinta
nell’intervento lampo e angosciosamente perduta nel periodo di successiva
resistenza diffusa. Del passato si ha traccia concreta, sul futuro aleggiano
ipotesi varie compreso il presupposto di assoluta fluidità delle stesse di cui
i vertici iraniani tengono conto in assenza di certezze. Le uniche convinzioni
che hanno le amministrazioni di Teheran e Washington è che gli ultimi conflitti
hanno incrementato rispettivamente coesione e sfaldamento fra popolo e
leadership. E non è cosa da poco nel panorama geostrategico.
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