Sono state
lettere ufficiali, non
“cinguettii”, che pure il presidente iraniano Rohani utilizza, a introdurre un
‘piano C’ nella crisi siriana che riguarda i rapporti fra Washington e Teheran.
Un contatto storico dopo il blocco di decenni acuito anche dalla gestione del
pasdaran Ahmadinejad. Un approccio che affianca il pragmatico ‘piano B’ con cui
Kerry e Lavrov hanno deciso che su Damasco non cadranno i Tomahawk. Per ora. Scelta
che non piace ai duri della politica statunitense come McCain, pronti ad
aiutare Obama nel suo braccio di ferro bellicista, e a detta degli analisti dei
maggiori quotidiani d’Oltreoceano si logorerà. Perché sul fronte dell’arsenale
chimico di Asad gli ispettori non potranno verificare ciò che vorrebbero.
La notizia
nella notizia è comunque
l’apertura di un canale diplomatico di vertice, nelle persone dei rispettivi
presidenti, fra Stati Uniti e Iran giunti quasi allo scontro aperto nei momenti
più duri dell’embargo. Sanzione esasperata dallo stesso Obama quale estrema
ritorsione a un progetto nucleare anche in quel caso inverificabile e
contestato da taluni tecnici dell’Aiea. Lo spettro dell’arma atomica, sempre
negata dal Paese degli ayatollah, e sospettata da Cia, MI6 e Mossad, per i geo
strateghi è un tutt’uno col teorema egemonico regionale lanciato sin dai tempi
della Rivoluzione khomeinista e rivivificato dalle velleità politiche delle
comunità sciite su Libano e Iraq. La Siria, costruita sul potere alawita cui
appartiene il clan degli Asad, cementa tale disegno.
Tanto che nel
tentativo di ‘cambio regime’ perseguito dopo la reazione alle proteste popolari del marzo 2011
l’attacco all’Iran rientrava non solo nei desideri dei falchi di Tel Aviv,
ostili più alla leadership di Teheran che a quella di Damasco, ma
nell’agguerrita componente neocon statunitense. E fra il vociferare del ‘regime change’ provato col sostegno all’Onda
verde del 2009 e i successivi attentati agli ingegneri iraniani impegnati nel
progetto nucleare le tensioni erano cresciute a dismisura. La rude fazione del ‘partito
combattente’, a lungo sostenitrice di Ahmadinejad, esaltava levate di scudi
muscolari come le operazioni navali nello stretto di Hormuz che avevano messo
in fibrillazione la Quinta Flotta.
Anche per la
ventilata spedizione punitiva in Siria osservatori internazionali parlano dei due tempi: colpire Asad
per indebolire Teheran e il suo Risiko delle alleanze locali in attesa della
guerra all’Iran. Eppure fantasiosi o ben informati analisti strategici avevano
di recente ventilato l’ipotesi d’un cambio di rotta a 180° da parte
dell’amministrazione a guida Democratica, pronta a far indossare la maschera
aggressiva all’ex pacifista Kerry, per smarcarsi con approcci diplomatici verso
il fulcro dell’Asse del Male. E il disponibile Rohani si presta ai dialoghi
scritti e parlati non solo per una consolidata frequentazione dell’Occidente.
Il partito del neo
presidente, e la stessa Guida Suprema, si pongono due obiettivi vitali: rilanciare l’economia e controbattere il
tentativo di Jihad con cui il fondamentalismo qaedista gioca la sua partita nel
Piccolo e Grande Medio Oriente. Per procedere sulle due strade indispensabili a
contenere malumori interni e compattare lo spirito sciita e laico, è necessario
rompere l’isolamento in cui la nazione è caduta con l’abbandono della gestione
riformista di Khatami. Un’esperienza densa di contraddizioni, rimasta però
nella mente di quei padri che hanno oggi figli ventenni. E discutono coi loro
sogni. Un Iran legato a intenti egemonici che non tramontano ma egualmente
orientato a strategie diversificate, è il nemico-amico con cui la Casa Bianca
inizia a chattare.
Nessun commento:
Posta un commento