giovedì 12 settembre 2013

Quirico, la Siria e mestiere di scrivere


Quale sia stato il motivo che ha messo nelle mani di maldestri ma comunque pericolosi sequestratori Domenico Quirico e il suo compagno di sventure Piccinin l’ha rivelato lo stesso inviato de La Stampa a dramma felicemente concluso: l’avidità. Legata al possibile riscatto che si può ricavare dall’impossessarsi di persone, giornalisti o altri, nel turbinio di violenza bellica e non che da due anni imperversa in Siria. Chi sequestrava i due, e prima di loro quattro free lance la cui disavventura è stata più breve seppure non meno angosciosa, probabilmente anche chi tiene relegato padre Dall’Oglio non sono combattenti anti Asad e neppure fanatici jihadisti bensì malavitosi. Costoro dal caos e dalla contrapposizione geostrategica che vuol fare della Siria il trampolino di un rivisitato Medio Oriente puntano a ricavare vantaggi personali rubando vite ed estorcendo denaro per riaverle. Non è la prima volta e forse purtroppo non sarà l’ultima.

Cosa conduceva Quirico su un terreno pericolosissimo come l’attuale  Siria è ragione ben nota a chi pratica e ama il meraviglioso e maledetto mestiere giornalistico: la deontologia. Quirico, e tanti come lui, voleva come ha detto “raccontare la Rivoluzione”. Per farlo non si può stare in redazione o comunque non solo. Lui aveva iniziato parecchi mesi prima, quando la ribellione di una parte della comunità sunnita all’emarginazione subìta dal clanismo di Asad aveva il volto dei moti di strada, pur repressi ma non guerra civile, né guerra sporca. In due anni quello scontro è diventato altro. Accanto alla violenza cieca praticata contro inermi di cui il massacro chimico è solo l’ultimo (speriamo definitivo) scempio, si è inserita la lotta fra bande, come precedenti scenari dei decenni passati hanno già mostrato. Quirico voleva esser lì, per vedere, saggiare cercar di comprendere ciò che accadeva perché non si può raccontare il dolore e l’orrore senza farseli passare accanto. Sceglieva il metodo più onesto, e rischioso, ben lontano dagli hotel sicuri in cui farsi riferire. Sceglieva, come fa un gran numero di seri cronisti conosciuti e meno, di affidarsi a chi ti conduce in certi luoghi e ti offre una visione delle cose.

Una visione inesorabilmente parziale, perché nella conseguente battaglia di parte e propaganda assunta dal conflitto siriano chi s’accompagna alle truppe lealiste è testimone delle violenze di oppositori laici o jihadisti e sicuramente di mercenari e miliziani di varie Intelligence che lì combattono contro il regime. Mentre sul fronte opposto c’è l’esatto contrario. Ciò non significa che non si possa narrare eventi certi, ma allo stesso inviato può mancare, per condizioni oggettive non per scelta preconcetta, l’opportunità di avere un quadro completo. Un reportage può comunque risultare anche un patchwork che gradualmente ricuce le situazioni osservate, però bisogna avere l’umiltà di riconoscere che ciò di cui si dà conto è una parte di realtà. All’opposto c’è la superficialità o la cattiva coscienza mostrate anche da firme illustri che s’incaponivano nel ritenere il proprio resoconto veritiero, storico, assoluto. L’esempio diventato aneddoto è quello di Montanelli, per decenni ostinato negazionista dei ‘gas di Mussolini’ in virtù del fatto che lui sul posto non li aveva visti. Lui, non Graziani e gli etiopi.

Una schiera meno garantita di reporter vive poi un’ulteriore difficoltà. Meno garantita non sul fronte dei pericoli incrociati in talune circostanze che quando giungono investono tutti, da Quirico dietro cui c’è una solida testata ai quattro free lance egualmente sequestrati in Siria. I giornalisti che non hanno alle spalle un editore forte, situazione diffusissima per la crudele crisi generale e di settore, si trovano davanti a cogenti problemi. Il budget a disposizione nelle trasferte è personale, non solo va anticipato ma spesso non viene reintegrato, questo limita sensibilmente la possibilità e la varietà di iniziative lì dove una guida, un interlocutore hanno un costo. Il mestiere non si blocca di fronte a questi ostacoli, però deve farci i conti. Aggirare il mainstream informativo conduce in certi casi nelle strettoie di percorsi praticabili a senso unico perché l’accoglienza dell’interlocutore è interessata alla propria verità. E questa oltre a non essere assoluta, a volte interdice la continuazione di cronaca in loco perché è impossibile camminare su entrambi i lati del fronte anche a fasi alterne. Così sequestrato non è il giornalista ma il giornalismo che, pur non essendo mai neutrale e magari mostrandosi gramscianamente partigiano, può almeno essere onesto. E l’onestà e la verità spesso infastidiscono. 

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