L’ex presidente egiziano Mohamed Morsi, sessantasette anni, è
morto ieri per arresto cardiaco, mentre assisteva, dentro un cubo di vetro
insonorizzato, all’ennesimo processo che lo vedeva imputato stavolta per
spionaggio, mentre “terrorismo, cospirazione, attentato alla sicurezza
nazionale” e altre accuse gli erano state confezionate negli anni da magistrati
asserviti e compiacenti al suo avversario politico: il generale golpista Al
Sisi, divenuto presidente dal 2014. La
Fratellanza Musulmana, posta da tempo fuorilegge con decreto dello stesso Sisi,
ha dichiarato che la fine di Morsi è “a tutti gli effetti un omicidio
premeditato” e ha chiesto agli egiziani di partecipare alle onoranze funebri.
Ma per ordini superiori queste sono state celebrate in gran segreto nella
primissima mattinata di martedì nella famigerata prigione di Tora, alla
presenza dei familiari stretti. Quindi la salma è stata tumulata nella zona est
della capitale, a Medinat Nasr, 14 chilometri dal centro città. Dopo un
iniziale periodo di arresti domiciliari Morsi, che era affetto da diabete, venne
incarcerato e posto in isolamento, come
peraltro altre figure di spicco del movimento islamista che, dopo il massacro
del 14 agosto 2013 davanti alla moschea di Rabaa al Adawiyya , è stato perseguitato con accanimento come ai tempi di
Nasser. I legali della Confraternita e alcune ong come Human Rights Watch da
anni denunciano torture, maltrattamenti, privazioni, vessazioni cui vengono
sottoposti quotidianamente o periodicamente decine di migliaia di detenuti. Comunque
nel corso dell’accertamento del decesso, avvenuto presso l’ospedale militare
cairota, il corpo dell’infartuato non presentava ferite o ecchimosi.
Se perfino una figura nota come l’ex presidente della grande nazione
araba finisce in questo modo, possono risultare credibili le centinaia di grida
di allarme dei familiari di egiziani imprigionati e spariti nel nulla che
temono epiloghi altrettanto tragici per i loro cari. Di fatto il detenuto può crepare
per infarto, insufficienza respiratoria, deperimento organico, malattie
infettive o motivi che i referti medici attribuiscono a malanni fisici, ma a
monte c’è il sistema di annientamento sistematico con cui un regime criminale
punta all’azzeramento fisico oltre che politico degli avversari. Questo è il
volto solo parzialmente celato dell’Egitto di Al Sisi e la comunità
internazionale, l’Unione Europea, l’Italia stessa rimasta sorda al lutto di
Giulio Regeni, non ne prendono atto, concentrati unicamente sugli affari
economici e le opportunità geopolitiche. Quest’ultime decretano nel sempre
infuocato Medio Oriente un avallo del fronte arabo reazionario nella sempre
infuocata area mediorientale, con la monarchia saudita che fa da un fulcro per
le petromonarchie del Golfo (se ne distingue il Qatar del battitore libero Al-Thani),
l’Egitto di Sisi, la Libia del signore della guerra Haftar o del fantoccio
Serraj presentati come statisti, un fronte che nella ricerca di supremazia
regionale si contrappone a Iran e Turchia. E Ankara, dopo anni di
doppiogiochismo, probabilmente non concluso, del presidente Erdoğan, può
rimescolare le alleanze regionali e internazionali ora che la Russia putiniana manifesta intenti egemonici nell’area.
E proprio sulle ceneri delle Primavere arabe che un decennio
addietro facevano fiorire desideri e speranze dalle contraddizioni
socio-politiche mai risolte, i fronti che si sono scontrati in Egitto - quello
laico conservatore sostenitore del golpe militare, e quello laico progressista
(prevalentemente giovanile, ma intensissimo e coraggiosissimo) cui s’univa per suoi
interessi la Fratellanza Musulmana - possono interrogarsi su un presente che
risulta peggiore degli anni folli e frolli di Mubarak. Un trentennio in cui il
raìs e suoi compari (militari e tycoon) si sono divorati il Paese a danno della
popolazione. La memoria corta, o colpevole perché collusa, dell’Occidente fa
finta che non siano esistiti. Però le leadership mediorientali dei Bouteflika,
Ben Ali, Saddam Hussein, Asad padre prima del necrofilo figlio, a un certo
punto finanche Gheddafi - tutti militari che usando maschere di progressismo,
rivoluzione laica o islamica, hanno promesso paradisi alla propria gente costruendo
i propri paradisi fiscali - risultano
mostri che il colonialismo di ritorno ha a lungo carezzato. Ciascuno risolveva
il confronto con l’Islam politico schiacciandolo e nel continuare a farlo hanno
creato alibi all’altro Islam politico, che ben prima di Qaeda sceglieva la via
del jihad. Ormai le due paiono realtà distinte, eppure tutt’ora fior fior di analisti
sentenziano che la matrice è unica, differiscono le tattiche: c’è chi imbraccia
il khalashnikov, chi la scheda elettorale. E gente come Morsi voleva
trasformare l’Egitto in un Califfato. Sarà. Ciò che ha mostrato in dodici mesi
di potere è stata la supponenza e l’approssimazione comune a tanti polici,
peccati gravi ma nessun fondamentalismo. Mentre oggi al Cairo il salafismo wahhabita
gode della protezione governativa e qualsiasi dissenso, laico e non, viene
tacciato di terrorismo e perseguitato.
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