martedì 18 giugno 2019

Morsi, storia d’una morte annunciata


L’ex presidente egiziano Mohamed Morsi, sessantasette anni, è morto ieri per arresto cardiaco, mentre assisteva, dentro un cubo di vetro insonorizzato, all’ennesimo processo che lo vedeva imputato stavolta per spionaggio, mentre “terrorismo, cospirazione, attentato alla sicurezza nazionale” e altre accuse gli erano state confezionate negli anni da magistrati asserviti e compiacenti al suo avversario politico: il generale golpista Al Sisi, divenuto presidente dal 2014.  La Fratellanza Musulmana, posta da tempo fuorilegge con decreto dello stesso Sisi, ha dichiarato che la fine di Morsi è “a tutti gli effetti un omicidio premeditato” e ha chiesto agli egiziani di partecipare alle onoranze funebri. Ma per ordini superiori queste sono state celebrate in gran segreto nella primissima mattinata di martedì nella famigerata prigione di Tora, alla presenza dei familiari stretti. Quindi la salma è stata tumulata nella zona est della capitale, a Medinat Nasr, 14 chilometri dal centro città. Dopo un iniziale periodo di arresti domiciliari Morsi, che era affetto da diabete, venne  incarcerato e posto in isolamento, come peraltro altre figure di spicco del movimento islamista che, dopo il massacro del 14 agosto 2013 davanti alla moschea di Rabaa al Adawiyya , è stato  perseguitato con accanimento come ai tempi di Nasser. I legali della Confraternita e alcune ong come Human Rights Watch da anni denunciano torture, maltrattamenti, privazioni, vessazioni cui vengono sottoposti quotidianamente o periodicamente decine di migliaia di detenuti. Comunque nel corso dell’accertamento del decesso, avvenuto presso l’ospedale militare cairota, il corpo dell’infartuato non presentava ferite o ecchimosi.
Se perfino una figura nota come l’ex presidente della grande nazione araba finisce in questo modo, possono risultare credibili le centinaia di grida di allarme dei familiari di egiziani imprigionati e spariti nel nulla che temono epiloghi altrettanto tragici per i loro cari. Di fatto il detenuto può crepare per infarto, insufficienza respiratoria, deperimento organico, malattie infettive o motivi che i referti medici attribuiscono a malanni fisici, ma a monte c’è il sistema di annientamento sistematico con cui un regime criminale punta all’azzeramento fisico oltre che politico degli avversari. Questo è il volto solo parzialmente celato dell’Egitto di Al Sisi e la comunità internazionale, l’Unione Europea, l’Italia stessa rimasta sorda al lutto di Giulio Regeni, non ne prendono atto, concentrati unicamente sugli affari economici e le opportunità geopolitiche. Quest’ultime decretano nel sempre infuocato Medio Oriente un avallo del fronte arabo reazionario nella sempre infuocata area mediorientale, con la monarchia saudita che fa da un fulcro per le petromonarchie del Golfo (se ne distingue il Qatar del battitore libero Al-Thani), l’Egitto di Sisi, la Libia del signore della guerra Haftar o del fantoccio Serraj presentati come statisti, un fronte che nella ricerca di supremazia regionale si contrappone a Iran e Turchia. E Ankara, dopo anni di doppiogiochismo, probabilmente non concluso, del presidente Erdoğan, può rimescolare le alleanze regionali e internazionali ora che la Russia putiniana  manifesta intenti egemonici nell’area.
E proprio sulle ceneri delle Primavere arabe che un decennio addietro facevano fiorire desideri e speranze dalle contraddizioni socio-politiche mai risolte, i fronti che si sono scontrati in Egitto - quello laico conservatore sostenitore del golpe militare, e quello laico progressista (prevalentemente giovanile, ma intensissimo e coraggiosissimo) cui s’univa per suoi interessi la Fratellanza Musulmana - possono interrogarsi su un presente che risulta peggiore degli anni folli e frolli di Mubarak. Un trentennio in cui il raìs e suoi compari (militari e tycoon) si sono divorati il Paese a danno della popolazione. La memoria corta, o colpevole perché collusa, dell’Occidente fa finta che non siano esistiti. Però le leadership mediorientali dei Bouteflika, Ben Ali, Saddam Hussein, Asad padre prima del necrofilo figlio, a un certo punto finanche Gheddafi - tutti militari che usando maschere di progressismo, rivoluzione laica o islamica, hanno promesso paradisi alla propria gente costruendo i  propri paradisi fiscali - risultano mostri che il colonialismo di ritorno ha a lungo carezzato. Ciascuno risolveva il confronto con l’Islam politico schiacciandolo e nel continuare a farlo hanno creato alibi all’altro Islam politico, che ben prima di Qaeda sceglieva la via del jihad. Ormai le due paiono realtà distinte, eppure tutt’ora fior fior di analisti sentenziano che la matrice è unica, differiscono le tattiche: c’è chi imbraccia il khalashnikov, chi la scheda elettorale. E gente come Morsi voleva trasformare l’Egitto in un Califfato. Sarà. Ciò che ha mostrato in dodici mesi di potere è stata la supponenza e l’approssimazione comune a tanti polici, peccati gravi ma nessun fondamentalismo. Mentre oggi al Cairo il salafismo wahhabita gode della protezione governativa e qualsiasi dissenso, laico e non, viene tacciato di terrorismo e perseguitato.

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