Arrivano così con manipoli armati e mascherati, ormai puntano
i fucili su una resistenza popolare che fino a qualche settimana fa impediva le
demolizioni, ma non è detto che potrà continuare a farlo. L’isola di Warraq nell’area
tutto sommato centrale del Cairo sul fiume Nilo, è un posto dove tuttora si
coltiva la terra. L’altra isola, Gezira, un sito ‘in’ dove sorgono club
esclusivi e ambasciate, dista non più di due chilometri a sud. A Warraq, a fine
anni Settanta sotto Sadat, s’inurbarono contadini poveri finiti a coltivar la
terra a due passi dalla metropoli che lanciava l’infitāh, l’apertura agli affari anche coi capitali stranieri.
Questi diseredati lanciavano i propri piccoli commerci, coltivando un terreno
fertilissimo e portando i prodotti fin sotto i palazzoni nasseriani della
burocrazia. Su quelle terre costruirono case, abusive ovviamente, come tante
altre attorno, comprese quelle che portavano capitali alla lobby dell’esercito
che sequestrava latifondi, costruiva illegalmente e affittava ai nuovi inurbati
che sempre più numerosi abitavano nella mega Cairo. Per gli abitanti di Warraq,
attualmente calcolati sulle duecentomila unità, andò avanti così durante la lunga
presidenza del raìs Mubarak e nel corso dei tumulti del 2011.
Nulla cambiò sotto la parentesi di Morsi e la salita al
potere di al Sisi. Per quattro anni il presidente golpista affaccendato in
operazioni repressive non si curò di Warraq. Finché i recenti rapporti
internazionali, propugnatori del fronte arabo della reazione che ha nella
monarchia saudita il fulcro militar-affaristico, ha condotto lungo le Corniche
gli occhi famelici dei manager di Khalifa bin Zayed, l’emiro dell’EAU, considerato
un autocrate addirittura peggiore di Salman bin. Seguendo le modernizzazioni populiste
di capi di Stato ben più dinamici e scaltri, Sisi punta a dotare il Paese e la
sua capitale di trasformazioni a effetto, non curandosi degli effetti di
ritorno sulle condizioni di vita di strati marginali che hanno conseguenze disastrose.
Così dall’estate 2017 aziende emiratine hanno pianificato il progetto di
trasformare quegli ettari di terreno immersi nel Nilo in luogo da turismo
iperstellare dotato di hotel, resort, villaggi per vip. Per realizzarlo occorre
sfrattare gli abitanti locali, che intanto si sono mobilitati con proteste di
strada, petizioni, ricorsi giudiziari, insomma hanno avviato una campagna di
resistenza a tuttotondo. L’eco mediatica è stata relativa, il regime del Cairo da
tempo ha tacitato la stampa interna con galera e tortura e punta a non far
trapelare notizie. Però il tam tam della mobilitazione è uscito dall’isola,
dalla capitale e dallo stesso Egitto.
Note emittenti come la BBC trattarono la vicenda
in occasione di scontri che causarono la morte di alcuni dimostranti. Ora attivisti
che agiscono in semiclandestinità, per evitare di tronare in galera dove
periodicamente vengono reclusi, sostengono che questa significativa resistenza
popolare nel cuore della città del potere potrebbe avere i giorni contati,
poiché sempre più pesante e minacciosa si fa la pressione governativa. Il fine
è allontanare gli abitanti di Warraq e trasferirli, abbattere gli edifici per
motivi di sicurezza (sic) e dare spazio ai cantieri del nuovo lusso turistico. Altrove
simili sbancamenti sono già avvenuti, pensiamo alla città di Rafah, sul confine
con la Striscia di Gaza, dove per accordi con Israele il governo egiziano ha trasferito
forzatamente un congruo numero di residenti. Certo sull’isola cairota i numeri
sono decisamente maggiori, la deportazione di decine di migliaia di persone non
è cosa semplice, ma grazie alle leggi speciali che propugnano sicurezza e
interessi nazionali, qualsiasi trasgressione viene tacciata di terrorismo e commina
decenni di detenzione.
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