A dieci giorni dalla ripetizione del voto per la
municipalità di Istanbul, consultazione fissata il 23 giugno, i contendenti che
restano gli stessi: İmamoğlu per il partito d’opposizione (Chp), già vincitore
alle amministrative di fine marzo, Yıldırım per il partito di governo (Akp), scaldano
i motori per il rinnovato confronto. Li scaldano coadiuvati dai rispettivi
apparati di sostegno messi a disposizione dai due schieramenti. La sfida è
simbolica. Il governo della metropoli turca sul Bosforo è più prestigioso di
quello della capitale, dove il presidente-sultano Erdoğan s’è fatto costruire
un palazzo degno d’una reggia ottomana. Il tema della ripetizione del voto, pur
senza forzare i toni, è stato ripreso in un pubblico dibattito dal segretario
repubblicano Kılıçdaroğlu. Per quanto poche rispetto agli otto milioni di
elettori, le 13.000 preferenze in più ottenute dal candidato del suo partito,
non potevano costituire nessuna pietra dello scandalo. Però l’inattesa
sconfitta del fronte governativo, per giunta con un candidato corazzato da
pregressi incarichi istituzionali, bruciava troppo. Da lì il ricorso dell’Akp. Eppure
le motivazioni addotte dal Supremo Consiglio Elettorale per l’annullamento
della consultazione, inizialmente basate su incerte espressioni di voto,
diventate poi inadeguatezza di taluni addetti ai seggi che non risultavano in organico
alla pubblica amministrazione ed erano perciò inabilitati al compito, son parse
costruite ad arte. Il fenomeno, probabilmente presente anche in altre
circoscrizioni elettorali su cui non s’è indagato o s’è chiuso un occhio, riporta
alle urne soltanto i cittadini di Istanbul. Al di là di reali o pretestuosi
cavilli il motivo di questo colpo di scena e di mano sta nel cuore dell’Akp che
non vuole assolutamente perdere il controllo della città dove la sua storia è
iniziata. La città erdoğaniana per eccellenza.
Domata dalla rivolta di Gezi park e sottomessa al progetto
di farne il fantasmagorico proscenio liberista dell’Islam politico. Le
innovazioni tecnologiche del raddoppio del canale del Bosforo, del treno
sotterraneo che unisce la città occidentale a quella orientale quale ulteriore
trait-d’union euroasiatico, ma anche il marchio musulmano che ha portato a
ridosso della kemalista piazza Taksim una nuova immensa moschea, rappresentano
la dedizione verso la sua città dell’uomo che ha scalato il potere nazionale ed
è un presidio turco in quello internazionale. La metropoli che gli ha dato i
natali nel quartiere popolare di Kasımpaşa, che gli permetteva di giocare al
calcio, e giocare anche bene da semiprofessionista ed essere ragazzo di strada
venditore di simit (focacce di
sesamo), ma anche di studiare e lanciarsi in politica, prima come sindaco nel
Corno d’Oro, quindi come leader assoluto. Con quell’irruenza trasferita dalla gioventù
all’età adulta, declamò i versi del sociologo Ziya Gökalp “Le moschee sono le nostre caserme, le cupole i nostri elmetti, i
minareti le nostre baionette, i fedeli i nostri soldati” finendo diritto in
galera, ma uscendone dopo un po’ e diventando vincente a furor di voti. Forse
basta questo per comprendere come la manìa di grandezza conduca Erdoğan, il
partito che gli sta attorno e quel pezzo di Turchia che lo segue come un’ombra
plaudendo a ogni sua mossa, di rifiutarsi a cedere la città del sogno. Non solo
quello sedimentato nei trascorsi centenari dello splendore che fu di Solimano,
ma lo stesso senso di comunità riunita nel vatan
di cui questo schieramento politico vuole farsi interprete. Per ampliare la
presa egemonica da un biennio patria e sentimento nazionale sono diventati ideali
rivisitati dall’Akp e strumenti ideologici per l’alleanza coi nazionalisti del
Mhp. Il golpe fallito tre anni fa ha fornito al nuovo padre dei turchi il via
libera per cercare aiuti parlamentari e rinnovato consenso nelle strade e nelle
urne. Unici inciampi: inflazione e disoccupazione à gogo. Basteranno per eleggere un sindaco fuori dal coro nella
città del sultano? Lo sapremo a breve.
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