Kabul: giovedì scorso un attentato-suicida
davanti all’ingresso dell’Accademia militare ammazza sei persone, ferendone
sedici. Ancora nella capitale il giorno seguente, mentre sfila un convoglio
militare statunitense, esplode un camion-bomba: quattro morti e quattro feriti,
quest’ultimi sono marines. Sabato a Ghazny un nuovo assalto suicida, stavolta a
una stazione di polizia. Si contano otto morti, tutti agenti, e sette feriti. Nella
sequela esposta, il primo agguato è dell’Isis, il secondo talebano, il terzo
non è stato rivendicato e forse neppure lo sarà. Ai contendenti non serve quasi
più appuntarsi stellette sul petto, son loro a misurarsi a distanza, son loro a
controllare territori ed emanare sentenze di morte. Smettono e riprendono quando
vogliono. In terra afghana viene rilanciata la ‘roulette russa’ degli
attentati, che in assoluto non s’era mai fermata, attenuata sì. Perché i
taliban che siedono ai due tavoli dei colloqui di pace, di Doha e di Mosca, con
interlocutori diversi, di là gli americani, in Russia gli uomini di Putin,
volevano mostrare la buona volontà di aderire al piano di transizione. Un piano
che nasceva inclinato, mostrando dei blocchi impossibili da superare, imposizioni
incrociate: il totale ritiro militare americano contro il disarmo dei
guerriglieri islamici. Si parla tanto, nessuno molla.
In più i turbanti
guidati
a Doha dal mullah Baradar, continuano a rifiutarsi d’incontrare lo staff del
presidente Ghani, lo trattano da fantoccio, quale in effetti è. E con questo
mettono in ginocchio quasi un ventennio di geopolitica Usa per quel Paese,
passata dalla guerra aperta dell’Enduring Freedom alla finta democrazia dei
presidenti eletti (Karzai e Ghani). Un disegno se non totalmente fallimentare,
come quello di dotare il governo di Kabul d’un esercito autonomo, perlomeno non
diverso da ciò che accade in tanti angoli non solo del Medio Oriente, dove i
leader fantoccio continuano a esistere ed essere sostenuti da potenti tutori. Eppure
la nudità di questo re è così sconcia da apparire nullità. A un simile bluff
non crede quasi più nessuno. Gli stessi attori degli ultimi anni che
sono poi i leader in carica - Ghani, Abdullah - ansiosi sostenitori d’un
sistema sbriciolato che può definitivamente seppellirli, restano attaccati alla
proposta di elezioni da oltre un anno. Prendendo ordini da Washington rimandano
le date: autunno 2018, primavera 2019 e poi luglio e ora settembre. Ma è un
procedere cieco, su cui poco sanno gli stessi mentori del Pentagono, prima
ancora che della Casa Bianca.
Del resto le trattative, tuttora aperte sebbene
inconcludenti, si arenano sui punti su esposti, nessuno vuol cedere perciò lo
stallo sanguinario è ripreso e può continuare. Ovviamente a danno dei civili
afghani che continuano a morire, del Paese che vede fuggire chi fra i suoi
giovani può farlo, che si ritrova al centro dello scontro strisciante fra
sauditi e iraniani, col Pakistan terzo ingombrante incomodo con Russia e Cina
che, vista l’incapacità americana di sbrogliare l’intreccio, ormai mettono più
del naso nel vespaio regionale. Tuttora si sta attaccati alle cerimonie di
Khalilzad e dei collaboratori di Lavrov, passando dalla palude d’una guerra
infinita a quella di negoziati senza sbocco. Washington dovrebbe mollare Ghani
e accettare un governo di transizione talebano che nulla vuol concedere agli ex
Signori della guerra riciclati in politica. I turbanti sanno di dover evitare
il soffocamento, basato anche sulla concorrenza dei miliziani Isis del
Khorasan. Sanno di non poter fare la guerra al mondo e di aver bisogno di alleanze
regionali e benestare mondiali, e a questo punto si giocano la partita fino in
fondo. Una partita aperta che pare irrisolvibile.
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