Sarà perché coinvolto in faccende serissime: l’accordo recentemente
ratificato sui missili S-400 (in parte già pagati a Mosca, mentre le restanti
quote verranno liquidate attraverso crediti che la Russia potrà vantare sulla
Turchia), ma da qualche giorno Erdoğan ha smesso di parlare della ripetizione
del voto per la municipalità di
Istanbul. E probabilmente non lo farà sino al 23 giugno. Più che per “causa di
forza maggiore” l’assenza sembra suggerita al partito di governo da sondaggisti
amici. Il sorpasso pur di poche migliaia di consensi che nello scorso marzo
aveva fatto prevalere il candidato repubblicano İmamoğlu è stato considerato il
coagulo nell’urna d’una protesta silente che punta a produrre lo smacco nella
città-simbolo, cui il presidente tiene moltissimo. In tal senso le questioni di
protezione militare e alleanza geostrategica che, negli ultimi giorni, hanno
calamitato attenzione e impegni di Erdoğan non declassano la consultazione di
Istanbul a problema di rango inferiore. In questo voto nella megalopoli sul
Bosforo, che sfiorando i 16 milioni di abitanti è un quinto del Paese, c’è
un’alta concentrazione di passato, presente e futuro sia del politico che si
sente padre dei turchi, sia di chi vorrebbe un’era nuova che non arriva.
Così il voto a İmamoğlu, un personaggio assolutamente
normale che non andrebbe al di là delle preferenze repubblicane, calamita ogni scelta
antitetica a ciò che il sultano incarna e vuole. Voto etnico, sociale,
ideologico e del vivere quotidiano, anche di chi ha creduto nel sogno dell’Akp
ma non ne è più tanto convinto. Per la crisi economica e per l’aria
dell’odierna Turchia che non è quella ottimistica d’un decennio fa. Sono gli
eventi e i venti che hanno portato bombe oltre il confine, considerato
sicurissimo sotto il mantello della Nato, e l’hanno portate in casa, con la
rinfocolata guerriglia kurda ma pure per gli intrighi internazionali dove
l’Isis ha giocato con e contro l’Intelligence interna. Per tacere dei misteri
dell’assassinio del console russo (dicembre 2016), dell’omicidio Khashoggi
(ottobre 2018). Se Erdoğan e il suo partito-regime hanno retto un copioso e
articolato fronte di attacchi, ne sono stati per altri versi artefici. Tutto
ciò agli occhi del cittadino medio può produrre orgoglio se è un fedelissimo
del progetto di fare della Turchia una potenza regionale geostrategica, timore
se il suo orizzonte vorrebbe essere quello d’una fortificazione economica senza
diventare fortezza militare, come negli anni bui delle reiterate dittature.
Ascoltare quel che dichiara il ministro degli Esteri Çavuşoğlu a
sostegno della scelta del sistema missilistico fornito da Mosca: “I confini turchi non sono come quelli con
Messico e Canada”, riporta a un piano realistico, non tranquillo. Oltre
alla lamentela di aver chiesto, in virtù del Patto Atlantico, per mesi a
Washington il conforto di armamenti adeguati, il ministro turco mette sul
piatto quel che accade da tempo in un’area infiammata e rovente e giustifica
così, davanti alla vaghezza del Pentagono, l’acquisto che tanto manda sulle
furie Trump. Senza mettere in discussione la fedeltà turca alla Nato. Però la
vicenda non riguarda solo l’hardware missilistico e dietro il software ci sono
apparati e appartenenze che superano i potenti interessi dell’industria
bellica. I cittadini richiamati alle urne, nulla decidono di tutto questo, sono spettatori come ieri davanti ai teleschermi dove Yıldırım e İmamoğlu si sono
misurati. Una novità: i politici dell’Akp dal 2002 non s’erano mai aperti al
contraddittorio, praticando sempre e solo comizi e interviste. Sgradite quelle
coi veri giornalisti (ma questo accade quasi ovunque). Nel faccia a faccia pacato
ma senza peli sulla lingua i due hanno parlato di questioni locali e nazionali.
Esordendo con battaglia per la democrazia (İmamoğlu) e “furto”
di voti (Yıldırım), si è passati alla gestione economica della metropoli: spese
eccessive e sprechi di 127 milioni di dollari per l’Istanbul Electric Tram and
Tunnel Company, contro l’affermazione: non risulta dalle verifiche della Corte
dei conti. Il candidato repubblicano rilanciava sulla Siria: dei 4 milioni di
rifugiati accolti 550.000 risiedono a Istanbul, occorre offrirgli non solo
assistenza ma occupazione attiva che ne preservi la dignità. La replica di
Yıldırım: la vicenda siriana è un dramma internazionale, cui il governo del suo
partito ha offerto molto e di sua sponte riguardo a protezione, servizi
sanitario ed educativo. Ha quindi preso il centro del dibatto giocando a suo
favore un tema di genere. Sfoderando dati ha vantato la crescita delle
studentesse che nei 16 anni di governo Akp hanno superato la presenza maschile
e nella stessa occupazione le percentuali sono passate dal 21% di inizio
millennio all’attuale 34%. Cifre e promesse anche da İmamoğlu: almeno 340
dollari di assegno di povertà alle famiglie bisognose e soprattutto 200.000
posti di lavoro tramite l’Ufficio dell’impiego. E pure trasporti gratis per
bambini sotto i 12 anni e madri con figli sino a quattro anni. E ancora per
entrambi promesse ecologiche di grandi spazi verdi. E il Gezi park cementificato?
veniva da chiedere ma sul tema nessuna polemica. I candidati vanno al voto col
sorriso, gli istanbulioti magari no.
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