Da giorni Israele ha
festeggiato il suo 70° anno, Netanyahu ha rilanciato altri provocatori
insediamenti di coloni sui territori della Cisgiordania, la geopolitica si
occupa di questioni internazionali, i balletti di Trump su colloqui sì o no con
Kim proseguono, governi cadono e nascono, pur con mille problemi come in
Italia, il carrozzone dello sport-spettacolo s’appresta ad avviare il Mondiale
del pallone. Una situazione resta eguale dal 30 marzo scorso, col solo aggravio
di vittime: i cecchini di Tsahal proseguono un criminale tiro al bersaglio sui
civili inermi che innalzano bandiere e invettive contro il sistema canagliesco
di quello Stato assassino che prendere la mira e fa fuoco su chi rivendica
diritti. E dopo aver deciso di far fuori i giornalisti, ora spara sugli operatori
sanitari che prestano soccorso ai feriti. E’ accaduto all’infermiera Razan
Ashraf al-Najjar, sorriso dolce di ventunenne, che pensava al suo popolo e
operava per lui. Per questo nel decimo venerdì di protesta per il diritto al
ritorno, macchiato 118 volte dal sangue che l’esercito di Tel Aviv cerca con
una tenacia pari alla sua lugubre ferocia, Razan era presso il confine fra Gaza
e la terra un tempo palestinese. Fra la polvere e il fumo, sotto il sole e
accanto ai giovani che manifestavano. Svolgeva il suo compito di assistenza,
dando l’ossigeno a chi soffocava col gas dei lacrimogeni, aiutando i feriti
falciati dai micidiali butterfly bullet.
Mentre un ragazzo era
steso a terra, colpito da uno di quei proiettili, Razan s’è avvicinata a
braccia sollevate e ben visibili. La conoscevano da una parte e dall’altra,
faceva servizio da settimane nell’accampamento di Khan Younis. Era vestita di
bianco come una sposa, portatrice di speranza di vita di fronte alla morte
seminata e incombente. Ha trovato incurante, cinico, assassino dall’altra parte
della rete, che i giovani palestinesi in segno di protesta tentano di tagliare,
il proiettile che un soldato d’Israele le ha sparato in pieno petto,
trasformando il suo panno in una sindone maculata di rosso. In queste
condizioni l’hanno raccolta i colleghi che accorrevano disperati sulle povere
membra private dall’alito vitale. Così l’hanno trasportata durante il funerale avvolta
nella sua bandiera, il vessillo del popolo amato, per cui ha interrotto
un’esistenza bella come il suo sguardo d’Oriente. Anche questo è un omicidio
premeditato, un crimine di guerra di cui Israele deve rispondere, gettato sul
personale sanitario che - denuncia l’Organizzazione Mondiale della Sanità - ha
finora fatto segnare 238 feriti e colpito 38 ambulanze. Mentre il padre di
Razan, durante il corteo funebre, indicava disperato quel camice arrossato e
ripeteva: “Questa era l’arma di Razan”.
Un’arma di vita, contro la morte seminata dai suoi assassini.
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