Tutti contro Erdoğan sull’altra sponda del Bosforo, quella
dell’opposizione d’ogni tendenza e colore, unita, a detta dei seguaci del
presidente uscente “solo dall’odio verso
chi sta facendo grande la Turchia”. E questo è in parte vero. Ma il matrimonio di comodo con finalità elettorali
che nel confronto-scontro dell’urna avvicina i repubblicani del Chp, gli altri
nazionalisti dell’Iyi, gli ultraconservatori islamici dell’Sp e i seguaci del
Partito Democratico nella cosiddetta ‘Alleanza Nazionale’ mostra qualche
desiderio in più di quello di togliere spazio all’Akp (sostenuto dai
nazionalisti storici del Mhp) e d’intralciare il presidente nei suoi disegni
assolutistici. Per avere un futuro costoro promettono, se ribalteranno le
previsioni risultando vincitori, di tornare al passato. Così ripristinerebbero
la centralità del Parlamento, messa all’angolo dal ‘sultano’, e
reintrodurrebbero la figura del premier. Sì, un processo antierdoğaniano per
ridare ossigeno alle Istituzioni piegate dal super presidenzialismo.
La Costituzione, rinnovata di recente, prevede anche un
cambiamento che può diventare un boomerang per chi l’ha partorita: la possibilità
di avviare alleanze fra partiti (un tempo vietate) in base alle quali chi
risulta sotto la soglia del 10%, per ottenere rappresentanza in Parlamento, può
comunque ottenere deputati se uno dei partiti della coalizione ha superato
quella percentuale. La norma è stata creata a misura del Milliyerçi Hareket
Partisi i cui voti sono serviti a Erdoğan per ottenere il cambiamento
costituzionale, linea che è stata contestata da una corrente interna autrice
d’una scissione (quella che ha dato vita l’Iyi Partisi). Per questo terremoto, e
temendo una contrazione dell’elettorato del Mhp sotto il 10% (nella
consultazione del novembre 2015 s’era fermato all’11.9%), lo staff erdoğaniano
ha predisposto la suddetta norma. A essa, ora, s’appella l’Alleanza Nazionale
che ha nel Chp il partito di maggior peso (25.3% nel 2015) che garantirà gli
altri tre soci. In quest’anticipo elettorale, fortemente voluto da Erdoğan e
Bahçeli, il dibattito verteva sull’impossibilità dell’Iyi Partisi di correre,
poiché per legge un raggruppamento dev’essere formato da sei mesi per entrare
nell’agone.
Ma il Chp è corso in aiuto: ha offerto alla nuova formazione 15
deputati (gli altri cinque provenivano dal Mhp, fra cui la leader Akşener) e
raggiungendo quota 20 ogni lista è ammessa senza anzianità di servizio. Secondo
i sostenitori (assai entusiasti) dell’Alleanza essa rappresenterà una sorpresa,
limitando le certezze presidenziali. Dicono che la gente è stanca delle
imposizioni di anni e vuol dare uno scrollone al sistema. Mentre la voce dei
comizi ha ripeteva ossessivamente questo concetto: “Il governo ha polarizzato il o Paese attorno allo schema ‘noi e loro’.
Quest’Alleanza esce dagli steccati di parte e cerca alternative. Nonostante i
punti di vista differenti, l’attuale situazione c’impone di sfocare linee
ideologiche e guardare alla sostanza”. Che però non è indicata. I
politologi sostengono che difficilmente il blocco anti Akp supererà le
percentuali del partito islamista, pur costringendolo a un successo da
maggioranza relativa. Diversa è la situazione riguardo alla presidenza che
coinvolge Erdoğan in prima persona.
I candidati di ciascuna componente possono comunque
frazionare il voto così da impedire al presidente uscente un’elezione al primo
turno superando il 50%. Servirà, perciò, il ballottaggio (previsto per l’8
luglio) al quale parteciperà un esponente degli oppositori. Secondo previsione
dovrebbe essere il repubblicano İnce, fortemente critico verso la politica
autoritaria del ‘sultano’. La figura è di quelle che colpisce l’immaginario del
cittadino medio: umili origini, gran lavoratore che s’è fatto da sé, un po’
come lo stesso Erdoğan. Non la sua arroganza e megalomania, in verità neppure
il suo carisma. E’ un uomo probo che tiene ai valori di buona conduzione della
cosa pubblica e mostra una devozione religiosa che può portargli voti. Eppure
sondaggi recenti nell’uno contro uno lo vedono raggiungere il 46%, mentre la
nazionalista sfegatata e ambiziosa Akşener otterrebbe il 48%. Ovviamente si
tratta d’ipotesi. Totalmente fuorigioco il candidato conservatore islamico
Karamollaoğlu, dal quale Erdoğan si separò per dar vita a una creatura politica
(l’Akp) più adeguata a tempi e desideri dei ceti popolari e medi della Turchia,
già ammaliata dal liberismo di Özal.
Invece il candidato alla presidenza che può rappresentare
una figura morale, onesta, democratica, moderna per una nazione che guarda alla
soluzione politica dei nodi che hanno riacceso sanguinosi conflitti interni, è
il leader del Partito democratico dei popoli Selahattin Demirtaş, da venti mesi
rinchiuso in galera, assieme ad altri deputati dell’Hdp, con l’accusa di
terrorismo. Lui e la sua formazione non hanno stretto alleanze, un po’ per
scelta, un po’ perché altri partiti le rigettano. Le proiezioni (viene dato fra
il 12 e il 15% di consenso) non gli prospettano il superamento di İnce, ma
della nazionalista dissidente sì. Questo già sarebbe un gran risultato per la
componente kurda e della sinistra che s’oppone al clima oscurantista che
avvelena la società, provando a contrastare la repressione indiscriminata con
cui Erdoğan colpisce gli avversari ritenuti più fastidiosi dal giorno seguente
il tentato golpe del luglio 2016. Si vota in un unico giorno il 24 giugno, i
600 seggi saranno distribuiti nei vari distretti, i maggiori a Istanbul (98),
Ankara (36), Smirne (28), Bursa (20). Nei territori kurdi Gazantiep e
Dıyarbakır hanno rispettivamente 14 e 12 deputati, da condurre al Meclis e si
spera non in prigione.
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