Con un quadro politico che gli sfugge di mano, un orizzonte
sicurezza devastato da cinque mesi fitti di attentati, un panorama sociale
altrettanto tragico nonostante le ipotesi economiche derivanti dal progetto
Tapi, l’unico che spende a suo favore nella campagna elettorale, il presidente
afghano Ghani prova a non finire stritolato come il classico vaso di coccio. E
lancia l’ennesimo appello ai talebani di casa proponendo un cessate il fuoco
sino al quinto giorno seguente all’Eid-ul-Fitr che segna la fine del Ramadan. Dunque
il prossimo 19 giugno. Nell’annuncio dato ufficialmente in tivù il presidente
ha sottolineato: “Col cessate il fuoco
incarniamo la forza (sic!, ndr) del
governo afghano, per dare un futuro alla popolazione e una soluzione
pacifica del conflitto nel Paese”. L’offerta è rivolta esclusivamente ai
talib ortodossi, quelli con cui cerca di rapportarsi da un anno, usando anche
l’intermediazione del signore della guerra Hekmatyar, rientrato a Kabul per la
missione. L’ultimo tentativo di dialogo c’era stato a febbraio scorso, ma non
aveva sortito effetti.
Anzi, i talebani, che in cuor loro sperano di scalzare il
ceto politico collaborazionista filo occidentale con la forza delle armi,
s’erano lanciati nella sfida con gli ex compari, ora dissidenti, che si firmano
Isis afghano. Una gara all’ultima bomba per il primato del terrore e la patente
di prima fazione della resistenza alla Nato. Nel tentare di sminuire il
fondamentalismo sanguinario, nei giorni scorsi alcuni rappresentanti religiosi
s’erano riuniti a Kabul per discutere ed emettere una fatwa contro gli attacchi
suicidi, che spesso colpiscono la stessa popolazione. I kamikaze non gli hanno
dato tregua, anche il luogo dell’incontro è diventato un obiettivo da colpire.
Altri morti e feriti, come nei mesi precedenti, seppure nessuna rivendicazione.
Ghani cerca il dialogo coi talebani che furono un tempo guidati dal mullah Omar
e che restano nella sua ortodossia, lui considera nemici i miliziani del
Khorasan che assieme ad altre sigle costituiscono la rete denominata Isis
afghano. Per allettare gli interlocutori ora propone un rilascio di prigionieri.
L’inclusione di liste di gruppi armati nella tornata elettorale prevista per il prossimo
ottobre con conseguente revisione della Carta Costituzionale. Insomma una sorta
di resa incondizionata al talib. I quali, però, sornioni osservano, infiltrano,
colpiscono, come fanno da anni. Puntano sull’inefficienza dell’apparato di
sicurezza messo su dagli Stati Uniti, sulla corruttibilità delle gerarchie
militari locali, sulla volatilità della truppa che negli anni ha raggiunto
grandi numeri (fino a 350.000 uomini) ma spesso diserta e soprattutto non è
disposta a combattere e morire per uno Stato inesistente. Eppure gli studenti
coranici in armi, che sognano di riprendere con quel mezzo il potere, come
avevano fatto i loro padri ventidue anni or sono, approntano guerriglia,
controllo di province impervie e d’importanti vie di comunicazione, azioni
temerarie nei punti più difesi della capitale, però nulla possono contro la
repressione aerea statunitense. Perciò loro precondizione per avviare i
colloqui è il ritiro delle truppe d’occupazione Nato, cosa che ovviamente il
presidente-fantoccio non può decidere. Se non puoi battere il nemico, alleati
con lui, chiosa un celebre motto. A Ghani piacerebbe, ma il tentativo può
rivelarsi l’ennesimo buco nell’acqua.
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