E’ la volta del ministero dell’Interno, colpito stamane a
Kabul da un’azione articolata: la deflagrazione di due autobomba vicino alla
nuova, presidiatissima, sede che sorge a un paio di chilometri ovest dall’aeroporto
internazionale, anch’esso controllatissimo. Dopo l’esplosione, che ha
sicuramente ferito alcuni militari di guardia (fonti ufficiali non hanno
precisato il numero, ma sono attese anche vittime) gruppi di miliziani hanno
tentato di penetrare nell’edificio. Sembra che siano stati respinti, però le
notizie restano tuttora approssimative. Il portavoce del ministro ha solo
confermato l’attentato senza aggiungere particolari. Il ruolo era stato
occupato da alcuni mesi da Wais Ahmad Barmak, 47 anni, e già responsabile di un
dicastero che s’occupa di affari umanitari e “disastri”, uno spaccato ben
chiaro di ciò che produce nel Paese la politica interna e quella straniera. Nel
governo di Unità nazionale Barmak aveva ricevuto per un breve periodo da Ghani l’incarico
di raccordo col Fondo delle Nazioni Unite per lo sviluppo dell’Agricoltura.
Nelle spartizioni fra fazioni su cui si regge (si fa
per dire) la diarchia Ghani-Abdullah, Barmak ha rimpiazzato come capo dell’Interno
un pashtun della storica tribù Barakzai, radicato ed eletto a Kandahar: Nur
ul-Haq Ulumi. La cui carriera politica, seguita a una precedente militare, si era
negli ultimi tempi accasata con Abdullah. Ma chiunque ricopra quel compito si
ritrova sotto gli attacchi dell’insorgenza bicolore, talebana e del Daesh
afghano. Proprio il premier, in un recente discorso alla nazione, aveva
sottolineato l’intento esclusivamente sanguinario dell’infinita catena di
attentati, rinnovando ai talebani l’invito alla pacificazione che il presidente
ha lanciato da un anno. Certo, per interrompere la catena di morte ha coptato Gulbuddin
Hekmatyar, fondamentalista definito “macellaio di Kabul”, con un passato
tuut’altro che immacolato. Non è servito. Talebani e vecchi e nuovi qaedisti si
fanno beffa di tali proposte, non hanno aperto nessun tavolo di trattativa e
proseguono sulla propria linea che punta a riprendere il potere con le armi.
Ipotesi finora irrealizzata, forse irrealizzabile,
mentre l’Isis afghano pensa solo a creare caos e paura seminando morte, se non
paralizzando le maggiori città, limitando di molto i movimenti quotidiani delle
persone, visto che ogni passo risulta a rischio vita. Nel proprio populismo i
talebani diffondono ripetuti avvertimenti alla popolazione di tenersi lontana
dai centri di potere, che saranno appunto bersagliati. Dicono sia la sprezzante
risposta all’offerta d’un governo servo dell’occupazione Nato. Discorsi che,
comunque, trovano udienza fra la gente comune. I talib dissidenti col marchio
Isis, che invece senza alcun preavviso seminano bombe davanti agli uffici
elettorali, lì dove i futuri votanti devono recarsi per la registrazione, sono
fuori da qualsiasi prospettiva di gestione ammistrativa, anche solo ipotetica.
Al di là di sogni di Califfato, di cui non vociferano più né Al Baghdadi né
altri, offrono testimonianza di sé, d’una presenza territoriale, del terrore
programmato e diffuso per impedire ogni passo. Si dice siano molto foraggiati
da chi trae vantaggi dall’instabilità afghana, dunque da Islamabad o Teheran o
Washington e l’Occidente perché tutto resti bloccato, distrutto, fumante. Come
da quarant’anni a questa parte.
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