Avrebbe atteso un altro paio di settimane, così da
far coincidere l’esplicito discorso alla nazione col primo anno di rielezione
alla carica presidenziale. Ma per un Rohani più nella veste d’implacabile Guida
Suprema che di affabile diplomatico grava la data del 12 maggio, il giorno in
cui l’omologo statunitense Trump dirà se svincolare il suo Paese dall’accordo
sul nucleare siglato nel 2015 da Obama. Attorno a questo passo che può
rinfocolare le tensioni fra i due contendenti d’un quarantennio pesano
interessi economici, politici, geostrategici interni e internazionali. Non una
questione da poco. Ed entrambi i presidenti che di problemi ne hanno parecchi,
sul piano degli intrighi personali il miliardario americano, sul fronte
socio-politico l’ayatollah che dal 2013 si regge sul compromesso fra riformisti
e moderati, si giocano una fetta del proprio successo futuro. L’ufficialità con
cui Rohani ha lanciato il messaggio alla nazione e i termini con cui l’ha posto:
“Se lasciano l’accordo gli Stati Uniti se
ne pentiranno come non mai nella storia” dice molto di più sul piano
geopolitico di quanto la delicatissima vicenda dica sul fronte economico. E
quest’ultimo è in condizioni gravissime, perché nel periodo dell’embargo l’Iran
ha subìto un pesante tracollo finanziario per la scarsità di commerci con
l’Occidente. Gli stessi ritardi nelle transazioni registratisi nell’ultimo
biennio, nonostante l’accordo firmato, è uno dei temi toccati da Rohani durante
il cammino elettorale.
Il presidente uscente ha giocato la sua rielezione contro
i conservatori che un anno fa sostenevano i candidati Qalibaf e Raisi. A fine
campagna i tradizionalisti avevano fatto convergere i voti su un unico
candidato (l’ayatollah Raisi) per evitare di disperderli in più rivoli e
favorire Rohani, come nel 2013. Ma non ce l’avevano fatta. La gioventù in cerca
di nuove opportunità di lavoro e di speranze avevano sostenuto una seconda
volta “l’uomo della svolta”. Ma la svolta non porta frutti e situazione interna
è magmatica. Le proteste di piazza di fine 2017, e le nuove fiammate d’un mese
fa, mostrano un panorama ingarbugliato e una tensione interna elevata. Fra chi
usa la piazza per contestare l’attuale establishment s’è ventilata una regìa
del malcontento d’inverno proprio da parte del tradizionalismo che ha una roccaforte
nella città santa di Meshhad. S’è parlato anche di un’azione autonoma dei
sostenitori dell’ex presidente Ahmadinejad (non a caso in quelle settimane
posto agli arresti domiciliari preventivi). S’è detto che certe proteste
cittadine scaturiscono da stimoli innescati magari da questi motivi e altri
intenti politici e di fazione, però il malcontento serpeggia. E tale
malcontento è correlato a due questioni: le mancate entrate di un’economia ancora
ingessata dal sistema finanziario mondiale del quale gli Usa detengono molti
fili, e le enormi uscite dovute alle guerre logoranti e dispendiose cui l’Iran
partecipa. Apertamente in Siria e Yemen, in maniera strisciante in altri focolai
mediorientali.
Quest’ultimo è un punto dolente, ma può diventare un elemento
di forza della gestione Rohani. Poiché col richiamo delle armi il partito dei Pasdaran,
ultimamente più vicino ai tradizionalisti che all’attuale presidente
compromesso coi riformisti, si sente tutelato dalla politica del clero come lo
fu solo ai tempi del Ruhollah Khomeini che lo creò. L’altro nume del
partito combattente, Mahmud Ahmadinejad, riuscì solo a spaccare il Paese, fra l’altro
prima delle vicende corruttive che l'oscurarono quasi quanto le rivolte
dell’Onda verde. Per qualsiasi presidente della Repubblica Islamica iraniana
avere dalla propria parte i pasdaran, significa possedere l’arma delle armi,
contro cui solo piazze rivoluzionarie e non meramente protestatarie possono
averla vinta. Nel caso dell’accordo sul nucleare che Trump, col solo sostegno
di Israele e dell’Arabia Saudita in versione Bin Salman, vuole stracciare,
Rohani può spiazzare i propri detrattori interni agitando lo spettro del
“Satana statunitense”. In tal modo trova il consenso d’un popolo che alle
divisioni interne antepone la sicurezza nazionale. In aggiunta, e sempre
sull’accordo nucleare può ricorrere agli altri cinque del cosiddetto blocco
5+1. Due sono giganti amici (Russia e Cina), delle altre tre potenze
occidentali (Gran Bretagna, Francia, Germania) bisognerà comprendere le
propensioni filo americane. Ma di quell’America estremista trumpiana, verso cui
finora solo Macron sembra apprezzare le follìe. E poi l’alzata di scudi di
Rohani, aggregatrice all’interno, ha la certezza di trovare sempre la
comprensione putiniana sullo scacchiere mediorientale. Una partita d’interessi
reciproci che prosegue la corsa.
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