Tutti a parlar di buche, che in una Roma addomesticata dai
peggiori politicanti millantatori di cambiamento e propositori di affarismo, ha
visto il chiacchierato Froome primeggiare; i corridori frenare e trasformarsi
in cicloturisti per non rischiare, uno squarcio via l’altro, l’osso del collo;
il pubblico far finta di godersi uno spettacolo che non è stato tale perché una
tappa ciclistica non è la scampagnata che ha in mente l’attuale sindaco
dell’ignavia seduto in Campidoglio. Dicono, a ragione, gli organizzatori che il
fondo degli 11 spettacolari chilometri, su cui la carovana a due ruota avrebbe
dovuto girare dieci volte, doveva essere asfaltato da mesi. Virginia Raggi e il
suo personalissimo staff hanno applicato il programma che i romani conoscono
ormai da un biennio: il nulla condito, nel caso delle strade, da qualche sputo
di cemento e pezzatura di catrame seminati qua e là. Oggi i lettori trovano tanti
noti colleghi di testate mainstream, sportive e non, a parlar giustamente delle
buche delle vie romane che hanno rallentato i pedalatori professionisti e dei
buchi nei piani di politici inadeguati non solo per una buona amministrazione,
ma semplicemente per un’ordinaria lista delle urgenze che sui sette colli sono
diventate alture insormontabili. Però i media e i loro operatori in questo Giro
che doppia il centenario, ed è stato portato nelle prime battute a Gerusalemme,
hanno evidenziato il proprio stratosferico buco al compito che gli compete. Un
buco nero nel quale s’è persa o viene omessa la finalità primaria del ruolo:
informare raccontando quel che accade.
Così nel rievocare le gloriose storie delle due ruote in rosa, visto che si
partiva dalla Città Santa non c’è stata alcuna contestualizzazione su chi
(Israele) con l’occupazione militare nel 1967 ha violato tale santità, anche
della propria religione. Qualcuno obietterà che non c’entra nulla, invece
c’entra eccome. Dipende dal senso che si vuol dare alla cronaca. Nell’inquadrare
soldati coi mitra spianati s’è detto delle ragioni di sicurezza, tralasciando
l’insicurezza e la morte che negli stessi giorni i commilitoni di quei militari
spargevano in un altro angolo della Palestina lacerata e umiliata con la
creazione dello Stato di Israele. A Gaza morivano più di cento cittadini che
manifestavano ricordando il diritto al ritorno sulle proprie terre, mentre i finanziatori
del Giro sbarcato nella Palestina storica più i suiveurs che lo stavano narrando, ricordavano il giusto Bartali,
salvatore di ebrei perseguitati, ma non spendevano una parola per rammentare ciò
che accadeva attorno alle strade riempite dal ticchettìo armonico di cambi e
catene. Nel mondo disarmonico di un’informazione non dedita ai fatti, ma
schiacciata sugli interessi di editori più politici che imprenditori e di direttori
e cronisti asserviti alle due tipologie citate, non c’è spazio neppure per
brandelli di racconto per offrire un servizio al lettore, figurarsi per un
percorso di verità. Il settorialismo sotterra la cronaca, così chi doveva
descrivere le tappe nei Territori occupati parlava esclusivamente di scatti e
tempi, senza soffermarsi neppure un attimo sui luoghi e il contorno.
Del resto se già in partenza mancava, e non pensiamo involontariamente, la
riflessione del motivo per cui il Giro dovesse sostenere il piano d’Israele di
condire con un simile evento internazionale la celebrazione del 70° anniversario della sua
nascita come entità statale, non ci meravigliamo, ma lo denunciamo, che tanti
colleghi abbiano taciuto la presenza lungo il percorso della Corsa Rosa rientrata
nella penisola, di dimostranti pro palestinesi. Rumorosi con slogan, visibili
con bandiere coloratissime, seppure compressi da manipoli di poliziotti in
borghese e tenuti lontani dai traguardi dove si concentrano telecamere e obiettivi.
Spiace che troppe camere e flash e taccuini si siano disinteressati d’una
presenza, ovviamente politica, che parlava di Palestina e dei diritti
calpestati di questo popolo. La contestazione della linea criminale spacciata
da Israele come autodifesa diventa una conseguenza dei discorsi di tali
attivisti. E costoro, possono piacere o no, erano presenti a bordo strada. In
gruppi talvolta sparuti, tal altra più numerosi, dicevano la loro, ma sono
stati ignorati da un’informazione che non vuole informare e punta a presentare
una realtà di comodo, secondo princìpi ben lontani dalla deontologia. Nel
termine, rivendicato da chi svolge questo mestiere, il discorso è unito al
dovere cui si è tenuti a rispondere. Per coscienza, per morale o semplicemente
per coerenza col ruolo prescelto. Un ruolo principalmente di servizio, ancor
più se pubblico. Poi, nella neutralità assoluta che non esiste, ogni operatore
dell’informazione ha opinioni proprie e magari può esprimerle a commento. Quel
che diventa insostenibile è celare la realtà. Tutto ciò nel giornalismo
diventato propaganda è un comportamento purtroppo diffuso. E’ quel cancro che trascina
in un abissale buco nero non solo l’informazione, ma la stessa esistenza
professionale.
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