domenica 23 febbraio 2014

Il Cairo, i buchi neri della rivoluzione


IL CAIRO - Non solamente Fratelli, anche compagni, amici, attivisti e supporter delle curve. Chi non è nelle galere di Al-Sisi sta lontano dalle strade e quando ci va si mescola alla folla. L’unica folla ammessa per via è quella vociante del commercio oppure in perenne transito su auto private e bus collettivi e, in certi anfratti del centro e nelle periferie, su carretti e cavalli. Riunirsi in strada anche a piccoli gruppi è considerato reato, una messa in pericolo della sicurezza nazionale recita il decreto dell’amato super ministro della difesa e presidente in pectore. Chi lo fa rischia cinque anni di prigione e può finire ad Abu Zaabal o similia. Nei mesi di protesta anti golpe di arresti ce ne sono stati a migliaia, soprattutto fra i militanti delle quattro dita, ma pure fra i Tamarrod pentiti e fra i ragazzi di Tahrir ormai ridotti al lumicino. Nella zona e dintorni c’è un pullulare di uomini che hanno l’aspetto inconfondibile e globale del poliziotto in borghese. Occhi che guardano attorno, fumando, fingendo di leggere improbabili giornali o scrutando il panorama. Magari la paranoia cammina fra la gente, ma chi è conosciuto, segnalato o ha nemici sull’altra sponda politica usa la giusta cautela.

E’ il motivo per cui ora diventa difficile incontrare agitatori della Primavera o semplici partecipanti. Con l’aria che tira nessuno si fida e anche i personali contatti con egiziani d’Italia già preannunciavano questo letargo dei protestatari. Piccoli fuochi sono ancora accesi, l’altro ieri ad esempio nella zona di Al-Nasr c’è stata l’apparizione, più simbolica che di effettiva contestazione, di sparuti ragazzi di Rabaa. La normalizzazione è il desiderio della maggioranza cairota, è quel che appare sui media, è una speranza che vorrebbe conferme eppure vive nell’inquietudine. Di rivedere la sfilza di promesse non mantenute, secondo quanto dichiarato dai rivoluzionari della prim’ora riguardo a senso di giustizia, rilancio della dignità, lotta alla corruzione che insieme a democrazia, libertà e cancellazione della povertà erano i punti base della Rivoluzione del 25 gennaio. La Primavera incompiuta e tradita dalla stessa Brotherhood che sui moti di piazza aveva costruito la sua campagna per la presa del potere. Col mezzo democratico del voto, ma pur sempre con l’intento di riscattare per sé gli ottant’anni di esclusione dalle stanze dei bottoni.

Come loro altri apprendisti stregoni: il trio ElBaradei-Sabbahi-Moussa del Fronte di Salvezza Nazionale, che ha lanciato la famosa raccolta di firme per sfiduciare Mursi e le successive ciclopiche manifestazioni culminate con la defenestrazione manu militari del presidente. Così talune riflessioni di noti attivisti laici, colpiti dagli effetti della Sisimanìa, oggi giungono a un’amara considerazione. Se quello della Fratellanza diventava un regime autoritario che è stato giusto bloccare, la svolta del golpe di velluto - un velluto tinto di rosso - è addirittura più inquietante. Perché soffoca la democrazia, si sostituisce a essa, ripropone la rappresentanza drogata dell’era Mubarak come dimostra il recente referendum costituzionale votato dal 38% dell’elettorato. Uno, due, tre passi indietro se viene colpito il vero elemento rivoluzionario rappresentato dalla partecipazione diretta, dal senso collettivo, dalla volontà di offrire cultura al popolo. Era questo il fulcro del fitto parlare sotto le tende di Tahrir nei giorni che precedettero la caduta del raìs. E nel ritorno dell’autunno 2011 su quelle aiuole, ridiventate vivace agorà anziché grande rotatoria della giostra di automobili rombanti in una città votata all’individualismo.

E’ attorno a questo spirito che l’Egitto si sta dividendo da tre anni. Laici e islamisti è una ma non la più profonda chiave di lettura, seppure gli estremismi di alcuni settori (feloul e fondamentalisti) hanno segnato col sangue delle reciproche fucilate un tentativo di conflitto, anche armato, fra le parti. C’è chi ha detto di lasciare ai professionisti del grilletto questa sfida, infatti Servizi e qaedisti hanno ultimamente preso la scena. La ben più reale lotta che s’intraprende in città e campagna avviene attorno a volere cambiare registro sul sistema. Finora i ribelli di Tahrir, in gran parte laici ma anche Fratelli come dimostra più d’un martire già in epoca Tantawi, hanno discusso di sovrastruttura senza parlare di come scardinare uno Stato che continua a essere retto da dollari e paura. Ai politici di professione di sponda liberale e nasseriana, il capitale anche imperialista, piace. E piace a tanti imprenditori islamisti legati agli affari, personali o marchiati dalla Confraternita. Preghiera e impresa fanno il paio con le chiacchiere e il businness dell’altro versante politico. In faccia a tutto: alla tradizione, alla cultura, al culto stesso. Come fa una delle famiglie d’oro del Cairo che conta, importatrice unica dei marchi Pepsi, Vodafone, Kia, Renault che decide di costruire un megastore di fronte alla Moschea di Alì sulla collina della Cittadella. E magari ci riuscirà. Mentre a Moqqattam si fa la fila per il pane, flash d’un Paese immutato neanche regnasse ancora Faruq.

(fine)

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