Il Southestern
Anatolia Project (Güneydoğu Anadolu
Projesi) è uno dei progetti della grande Turchia targata Erdoğan. Come il taglio del secondo Bosforo, come e più del
restyling di Istanbul che elimina il Gezi Park. Messo in cantiere nel 2005 ha
l’obiettivo di proporre uno sviluppo sostenibile di un’area abitata da 9
milioni di persone che copre ben nove province (Adıyaman, Batman,
Diyarbakır, Gaziantep, Kilis, Siirt, Şanlıurfa, Mardin, Şırnak) comprese nel bacino del Tigri ed Eufrate, quelli dell’antica
Mesopotamia. Il tutto “per razionalizzare l’utilizzo dell’acqua con finalità idroelettriche,
d’irrigazione agricola e relative a infrastrutture, educazione e salute”. Così recita
il progetto la cui ultimazione è prevista per il 2017. Lungo il corso dei due
fiumi sono previste ventidue dighe che consentiranno di distribuire acqua a
1.82 milioni di ettari di terreno, alcune: Karakaya, Atatürk, Birecik, sono attive da tempo. A esse s’aggiungono diciannove centrali
idroelettriche che riforniranno ¼ dell’energia nazionale. Il costo del mega
bacino, considerato fra i più ampi del mondo, ammontava sino al 2013 a circa 20
miliardi di dollari, ne sono stati spesi già 22. Negli anni son venuti meno
diversi finanziatori europei e oggi il piano è sostenuto da capitali quasi
esclusivamente interni. In linea col sentire della Grande Turchia di Atatürk, che già aveva
vagheggiato una rete simile nelle province del sud-est. Poi tutto si fermò sino
alla soglia degli anni Ottanta in cui l’establishment rilanciava l’intenzione
di rivitalizzare questa zona di passaggio verso il Medio Oriente.
Tuttora il piano propaganda un crescente sviluppo sostenibile della regione che ha
incrementato l’export a livelli esponenziali: da 689 milioni di dollari agli 8
miliardi attuali, cifre confermate di recente dal presidente della Gap Sadrettin Karahocagil in faccia a qualsivoglia crisi. Riguardo alla diga di Ilisu il progetto s’incastra
su un problemino etnico, socio-politico e culturale: l’immersione di una
vastissima area abitata dalla popolazione kurda che viene deportata altrove. Decine
di paesi e villaggi, sessantamila abitanti. E la scomparsa di siti archeologici
considerati patrimonio dell’umanità di cui la cittadina di Hasankeyf, culla d’una
civiltà di 10.000 anni di storia, assurge a simbolo. L’accusa della gente di
quei luoghi, dei comitati in cui s’è organizzata, dei politici interni e delle
personalità internazionali che solidarizzano con la protesta è che il governo
turco miri a cancellare le tracce d’una presenza mai digerita e oppressa, la
comunità kurda, oppure perseguitata sino al genocidio, quella armena. Le
autorità di Ankara sostengono che alcuni monumenti verranno smontati,
trasferiti e salvati, come fecero gli egiziani coi templi di Abu Simbel quando
fu varata la diga Assuan. Chi contesta obietta che accanto alle vestigia esiste
un’identità, un’unicità geo-storica dei luoghi che non può essere trasferita
altrove. Ci sono donne e uomini che da generazioni si tramandano queste radici.
Ed esistono memorie recentissime, come quelle delle ragazze della cittadina
millenaria raccolte da un documentario di Tommaso Vitali, rivissute in uno spazio temporale di appena un quindicennio. Sono
ricordi di fine anni Novanta che trasmettono profonde emozioni.
“Per noi il fiume è sempre stato un luogo
di giochi, anche se rischiavamo
di annegare. Quando scendevamo in acqua trovavamo sassi levigati, adatti ai
giochi di piedi e mani, queste pian piano prendevano rilievo, si raggrinzivano
sino a diventare livide…”. Inanellano flash di poesia: “Camminavamo
a piedi nudi su quella terra eterna che si faceva calpestare. Ora i funzionari
governativi vengono a chiedere cosa pensiamo della perdita delle vecchie case,
ci interrogano sulle nuove. Cosa volete che pensiamo? Non ci piacciono né per
forma, né per materiale”. Qualcuno dissente: “Le nuove abitazioni sono graziose e spaziose, abbiamo tre camere da
letto…”. Eppure prevale l’impotenza:
“Resterà solo il castello, ogni cosa attorno sarà sommersa, si potrà giungere
solo in battello, con viaggi interni o turistici. Il castello sembrerà un
isolotto, rimarranno lui e la collina, l’acqua coprirà ogni cosa”. “Nella casa
di mia nonna che era stata di sua nonna e di sua nonna ancora, in certe calde
notti d’estate riparavamo sul tetto. Saliva anche lei. Ci narrava antiche
storie, avventure del suo amore, racconti che amavo molto. Con mia nonna
condividevo i miei problemi di adolescente, mi consigliava e diceva: sì, questo
puoi farlo oppure: ragazza mia secondo me la via giusta è questa. Questi
momenti non andranno a fondo come la casa secolare. Lo Stato può rubarmi il
fiume senza sapere che lui abita in me”.
Gentile Campofreda, se mi permette, sarei curioso di sapere le fonti di questo virgolettato finale. Francesco
RispondiEliminaSi tratta di frasi di giovani riprese da spezzoni video che l'ufficio stampa Uiki mi ha fornito, ecam
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