Malmenati, parecchi.
Imprigionati, a decine. Uccisi, sei nel 2013. Si fa sempre più difficile la
vita di chi in Egitto è impegnato nell’informazione come cronista interno o
inviato. Di qualsiasi nazionalità. L’ultimo caso è avvenuto in chiusura
dell’anno orribile. Quando tre giornalisti di Al Jazeera: Peter Greste, Mohamed Fahmy, Baher Mohamed sono stati
fermati e condotti in carcere in base alla nuova legge di attentato alla
sicurezza nazionale. Una norma diventata lo spauracchio per qualsiasi cittadino
a causa dall’uso spropositato e il facile abuso operato dalle Forze dell’Ordine.
Nei confronti dei tre non è stata elaborata un’accusa specifica, all’atto del
fermo gli erano stati contestati servizi video e interviste ad alcuni attivisti
della Fratellanza Musulmana, il movimento messo fuori legge dal ministro della
Difesa Al Sisi. Una dozzina di operatori dell’emittente qatarina, fra cronisti
e cameramen, e svariati impiegati erano stati arrestati fra giugno e soprattutto
agosto 2013. Era la fase in cui la repressione militare raggiunse l’acme con la
strage di oltre mille manifestanti a Rabaa Al-Adaweya, che per la Brotherhood
furono quasi il doppio ma il ministero dell’Interno non ha mai rivelato le
cifre.
Nei mesi seguenti un
buon numero di cronisti è stato rilasciato. Resta tuttora recluso nella
prigione speciale di Abu Zabal, Abdullah Al Shami, altro corrispondente della
tivù di Doha, che ha intrapreso da settimane uno sciopero della fame che ne sta
minando la pur giovane fibra. Mentre il padre di Peter Greste ha lanciato dagli
schermi un appello di clemenza al governo del Cairo. L’invito alle autorità è
considerare l’alto livello dei report realizzati da quella tivù, uno strumento
di democrazia e libertà irrinunciabile per ogni nazione. Con l’aria che tira
difficilmente il suggerimento verrà raccolto. Nei confronti di Al Jazeera e del suo ruolo giocato in
questi tre anni sulle Primavere arabe, la lobby militare e la parte d’Egitto che
la sostiene (diventata negli ultimi mesi maggioritaria per scelta o per paura)
sta calcando particolarmente la mano. La componente laica, quella che parteggia
per i militari e quella conservatrice l’accusano di manipolare l’informazione e
di ordire ingerenze nelle faccende interne. Un’insinuazione fatta propria anche
dalla monarchia saudita che delle vicende dei Paesi dell’intera area del
piccolo Medio Oriente è davvero sovrana tramite la sua Intelligence.
Anche durante la breve
parentesi islamica, con la presidenza Mursi e l’esecutivo Qandil, non c’era
stato un idillio verso l’informazione. I neo eletti l’avrebbero gradita se non
totalmente acquiescente perlomeno quieta. Momenti di tensione si erano avuti
con talune emittenti (diverse sono private e finanziate da tycoon vicini a posizioni
conservatrici) che davano spazio a critiche. Un caso divenne El Bernameng (Il
programma) in onda su Cbc, in cui
trovava sfogo la pungente satira del comico Bassem Youssef. Giudicata offensiva
verso la figura presidenziale gli costò una citazione per diffamazione e l’abolizione
della trasmissione stessa. Ma quello che sta accadendo sotto il governo,
seppure provvisorio di El Beblawi, è un bavaglio sistematico alla libertà di
espressione e d’informazione, con ricasco sulle vite degli stessi operatori, picchiati
in strada da baltageyah, minacciati, arrestati, abbandonati a una sorte
incerta. E se Al Jazeera può contare
su una cospicua forza mediatica, ciò che accade ai freelance egualmente
imprigionati, ma non rivendicati da alcuna testata e da nessun editore di peso
con casse infarcite di petrodollari, è facile immaginare. Il bavaglio
all’informazione amplia i confini.
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