Esercito,
Intelligence, talebani
- chi più chi meno - sono i poteri forti che orientano la politica pakistana. I
politici di professione alla testa dei partiti o nel ruolo di primo ministro,
come lo è stato Imran Khan e ora è Sharif Shahbaz, devono giocare di sponda,
scegliendo con chi stare e, se fanno il doppiogioco com’è capitato all’ex primo
ministro defenestrato ad aprile 2022, devono saperlo fare. Le conseguenze sono
gli “avvertimenti” armati come quello di novembre che ha fatto sbollire la protesta
antigovernativa dell’ex campione di cricket. Di tale quadro discutono gli analisti
interni, avvezzi a simili orizzonti ma da oltre un anno intenti a decriptare i
legami palesi e gli intrecci occulti con cui leggere gli eventi. La linea del
terrore ripresa da tre mesi dai Tehreek-e
Taliban Pakistan, e approdata al recente massacro della moschea di
Peshawar, non è la prima cui ha abituato il gruppo fondamentalista. Anzi. Può risultare
diversa dal passato, se non nell’intento sanguinario e intimidatorio, nella
strategia regionale di medio corso. Davanti a governi che hanno impostato
trattative anche per conto di altri poteri (la lobby militare) e non hanno raggiunto
accordi con questo gruppo, ecco crollare un equilibrio già di per sé precario. I
colloqui - avviati da Khan con l’aiuto di alcuni generali (Bajwa) con cui sono
lo stesso Khan è entrato in polemica prima d’essere sostituito da Shahbaz che
ha poi sponsorizzato altri militari (Mirza) insediatisi al vertice
dell’esercito e sostenitori d’una linea intransigente coi TTP - non potevano che implodere. Gli attuali vertici delle Forze
Armate sono contrari alla liberazione dei prigionieri Tehreek, assieme al nuovo esecutivo spingono per l’abolizione
dell’autonomia delle Aree Tribali (Fata) e il loro assoggettamento all’autorità
statale. Contravvengono alle promesse dell’Inter-Services
Intelligence che rassicurava i taliban sul mantenimento d’uno status quo in quei territori. Ognuno fa
il suo gioco, però le diverse posizioni in seno all’esercito e fra questo e i
Servizi segreti hanno fatto precipitare la situazione.
Se
si aggiunge che gli equilibri regionali sono mutati dall’estate
2021, con un Emirato afghano per nulla orientato a collaborare con Islamabad e sempre
più vicino e sodale ai fratelli talebani d’oltreconfine, non c’è da stupirsi
della ricaduta nel caos della nazione pakistana. E’ anche vero che parecchi degli
accordi (se ne contano una ventina) stipulati da inizio Millennio fra Stato e
gruppi fondamentalisti, sono stati disattesi da quest’ultimi che volevano
rafforzarsi e lanciare nuove sfide. E’ altrettanto vero che una delle tattiche
dei governi guidati dalla Lega Musulmana-N e dal Partito Popolare Pakistano consiste nel privare di spazio vitale le
componenti talebane, scacciate dal Waziristan del Nord, ora braccate pure nella
zona delle Fata e sempre più spesso riparate in territorio afghano, col cui attuale
governo stringono legami in funzione antipakistana. Verso nazioni in difficoltà
- socio-politica, economica, finanche umanitaria - Pakistan, Iran, Arabia Saudita, Turchia non
nascondono mire di supremazia, ampliando la competizione con giri d’alleanze rivolte
a forze combattenti che controllano il territorio. Simili piani si sono ben
adattati a strategie geopolitiche vecchie e nuove che potenze regionali e mondiali
stabiliscono in quell’area. La vicenda dei talebani pakistani si lega a quanto
si respira negli ultimi tempi nelle province di confine simili al Khyber-Pakhtunkhwa,
e i miliziani che agiscono a Peshawar possono rappresentare un puntello per i
turbanti di Kabul contro Islamabad. Inoltre l’Isis-Khorasan che affligge i talebani ortodossi, può costituire in
terra pakistana un rivale per gli stessi Tehreek-e
Taliban. Oppure no. A deciderlo sono: leadership, finanziamenti, uso che i
finanziatori (Arabia Saudita, Emirati Arabi, Qatar, Isi pakistana) vogliono fare coi bombaroli. Una recente novità è
l’esasperazione popolare ad attentati e morte. La paura appare sostituita dalla
rabbia e dalla determinazione di chiudere il cerchio della violenza cieca che
anziché intimorire porta i pakistani in strada. Negli ultimi giorni hanno
protestato anche poliziotti, in divisa e non. Si sentono più vicini al popolo
che allo Stato. Il loro Corpo conta talmente poco da non essere né lobby né
potere forte.
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