sabato 25 febbraio 2023

Egitto, una tavola sempre più ristretta

 


Contatti egiziani raccontano che la dieta più sofisticata -  naturalmente è esclusa l’élite militare e degli affaristi pro-regime che non hanno problemi a rifornirsi fuori dai confini nazionali - passa per pietanze a base di pollo. Chi può alleva direttamente l’animale da cortile o se lo fa arrivare in dispensa macellato halal. Ma l’orizzonte alimentare del Paese risulta sempre più oscuro. I prezzi di qualsiasi derrata sono raddoppiati, mentre i salari dimezzano e le banche limitano il ritiro di denaro. Per quest’ultima voce gli svantaggiati appartengono alla categoria dei correntisti, cioè i dipendenti statali e chi si rapporta alla filiera lavorativa delle onnipresenti Forze Armate. Qualche analista lancia il paragone con uno Stato evanescente qual è diventato il Libano, con la differenza che quest’ultimo risulta un’inezia rispetto al grande Paese arabo. Dar da mangiare a una popolazione venticinque volte più numerosa rappresenta un busillis non da poco.  La moneta egiziana (lira o sterlina che dir si voglia) si è svalutata di circa un terzo solo negli ultimi quattro mesi e l'inflazione galoppa al 20%. I problemi economici del Cairo derivano da vizi interni mai risolti (corruzione e pessima gestione dell’economia) cui si sono aggiunti questioni esterne: pandemia da Covid-19 e guerra in Ucraina. I due anni di blocco del turismo hanno avuto pesantissime ricadute su uno dei settori un tempo prolifici per le entrate statali, egualmente la crisi del commercio dei cereali dal Mar Nero (80% del mercato) ha messo in ginocchio  l’approvvigionamento di un elemento base che nutre ogni strato sociale egiziano. 

 

Poi c’è la più volte citata manìa di grandezza che caratterizza la gestione di al Sisi, i mega-progetti del raddoppio del canale di Suez e la creazione dal nulla della New Cairo, nuova capitale amministrativa, costata finora 50 miliardi di dollari, e tuttora in edificazione con capitali  ulteriori che si sommeranno a un debito estero che viaggia verso i 200 miliardi di dollari. I 155 miliardi del 2022 sono un calcolo ormai ampiamente superato. Di queste spese talune vanno per progetti che osservatori economici definiscono “inutili o mal concepiti”. Eppure proseguono perché nessuno può contestarli e contrastarli. Se il Fondo Monetario Internazionale, che di recente ha stanziato una nuova cessione di tre miliardi di dollari, centellina le sue quote, ben più consistenti cifre giungono dalle petromonarchie. Sauditi, qatarioti, emiratini, interessati alla propria diversificazione finanziaria, prestano petrodollari diventando padroni effettivi di pezzi del mondo arabo, lo fanno da oltre un ventennio. In aggiunta, volendo determinare la geopolitica regionale, si servono del ruolo di gendarme locale cui i militari cairoti si sono votati col presidente golpista al Sisi, repressore d’ogni spazio di democrazia. Per questo l’Egitto forse non sarà destinato alla dissolvenza, ma potrà respirare sempre meno coi propri polmoni. Mentre una prassi diffusissima dal Maghreb al Mashreq è la quella degli Stati falliti. A causa di conflitti, esterni o intestini (Libia, Siria, Iraq), oppure prosciugati da repressioni ordite dalle élite di potere (Egitto, Tunisia), fino a situazioni svilite da sistemi incistati nelle consuetudini temporali e spaziali (Libano). E’ il quadro desolante avallato da una cinica comunità internazionale, interessata al dominio coi suoi poteri forti su quelle che furono le liberazioni e autoderminazioni dei popoli. La geopolitica torna a proporre protettorati come faceva il colonialismo del secolo scorso e subordina l’esistenza di “nazioni” prendendole per fame.

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