Manifestazioni contro in Iran. Partite dapprima in sordina giovedì nella
conservatrice Mashhad, ma già ieri cresciute e debordate nei bazar di parecchie
città e poi nelle strade fra la gente che protesta per gli aumenti dei prezzi e
i giovani che gridano contro la propria disoccupazione, “calmierata” nei
comunicati del governo Rohani, ma che secondo osservatori s’aggira ormai oltre
il 40%. Colpa anche d’un embargo che di fatto prosegue poiché, nonostante i famosi
accordi sul nucleare, tante aziende non riescono ad attivare investimenti per i
blocchi tuttora esistenti in un sistema bancario internazionale che impedisce o
rallenta le transazioni fra quel Paese e i mercati soprattutto occidentali. E’
il veleno che l’America, non solo trumpiana, riversa su un nemico storico,
influenzando gli organismi finanziari mondiali. Così al centro delle ire delle
piazze che rianimano rimostranze finisce il presidente Rohani, riconfermato nel
maggio scorso con un ampio consenso di moderati e riformisti, più il voto della
gioventù ribelle dei grandi centri, capitale in testa, capace di sostenerlo
oltre il primo mandato, quello agitato col simbolo di una chiave: apertura alle
riforme, all’Occidente, a un nuovo corso. Una chiave che scardinava
diplomaticamente ciò che il clero iper tradizionalista non voleva attuare e con
lui l’ala dura del partito dei Pasdaran. Una componente nient’affatto
ridimensionata nel peso economico-politico che, comunque, ha giocoforza ceduto
il passo nelle consultazioni di quest’anno.
Quando il presidente uscente ha prevalso sui due
cavalli di battaglia del fronte conservatore, inizialmente il laico Qalibaf e
nel rush finale il chierico Raisi. Sconfitti entrambi grazie all’ennesimo compromesso
fra i sostenitori dei mai dimenticati “apostoli delle riforme”: Moussavi,
Karoubi e il presidente delle promesse. Però quest’ultimo sta incespicando
sull’impossibilità di rilanciare l’economia, sul blocco del piano di
diversificazione che ripropone alla nazione una dipendenza dal mercato degli
idrocarburi, di per sé soggetto a tempeste geopolitiche, e si vede offuscata
l’immagine interna, nonostante i buoni risultati in politica estera. Certo,
ieri a sostegno del presidente e della Guida Suprema Khamenei, cui gli
oppositori hanno gridato di andarsene, bruciandone addirittura le foto, sono
intervenute centinaia di migliaia di persone. A Teheran c’è stata una
gigantesca contromanifestazione che ricordava quella di otto anni addietro,
quando dopo mesi di agitazioni dell’Onda Verde, con migliaia di conseguenti
arresti, l’Iran khomeinista fedele alla Guida Suprema e al secondo mandato di
Amadinejad, pur sotto l’accusa di brogli, occupò fisicamente le strade per
controbilanciare lo spazio preso dai contestatori. Già all’epoca si parlò di
‘mano americana’ per mettere in difficoltà un regime incrinato da varie
spaccature. Quelle interne al clero, anch’esso diviso fra conservatori e
innovatori, quelle fra il gruppo di potere dei Pasdaran, che per un periodo con
lo stesso Amadinejad pensava di potersi emancipare dal tutoraggio degli
ayatollah.
E quelle di una parte della popolazione, prevalentemente giovane,
la quale pur in osservanza alla fede sciita, vorrebbe mettere la parola fine al
velayat-e faqih, creatura khomeinista
contestata da altri sayyid. Cui s’aggiunge il modernismo dei diritti di My Stealthy freedom, attivo sui social
network. A questo sfondo politico che persiste, s’aggiunge la realtà degli
ultimi tempi che mostra un rincrudimento unilaterale dei rapporti fra
Washington e Teheran per esplicito volere della Casa Bianca. Ora, sostenere che
anche le proteste di questi giorni siano ‘pilotate’ può essere un retropensiero
o un azzardo, di fatto certe mancate aspettative possono incendiare le delusioni.
E al tempo stesso è normale che diversi nemici dell’attuale nazione iraniana - non
dunque dell’attuale establishment come possono essere soggetti folkloristici tipo
Pahlavi jr, piazzato nella capitale statunitense o la sedicente rivoluzionaria
Rajavi, oppositrice dai boulevard parigini - osannino le contestazioni
antigovernative. Infatti puntuale è giunto il cinguettìo speculatore, o peggio,
del presidente statunitense che si rivolge a ‘un popolo sofferente’. Invece occorrerà
capire se le due piazze sono frutto di lotte intestine, una riapertura dei
cicli avviati con Khatami e i riformisti suoi successori o altro ancora. Oppure,
come sottolineano commentatori vicini al governo, si tratta di mal di pancia
legati al carovita, all’inflazione crescente, ai tagli di taluni sussidi che
colpiscono i ceti più poveri. Però l’aria si scalda e appaiono i morti. Chi
dice tre, chi sei per sparatorie delle Guardie della Rivoluzione nella località
di Doraud.
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