martedì 2 gennaio 2018

Iran, proseguono scontri e malcontento


Continuano proteste e rabbia, quella spontanea e quella indotta dai motivi più vari e in luoghi differenti, dalla capitale e dalle grandi città come Mashhad e Isfahan, i centri del culto e del turismo, a località minori (Tonekabon, Abhar nell’area azera del Caspio, e sempre a ovest a Zanjan e Kermanshah, sino alle zone orientali a sud di Mashhad). Le attese della periferia iraniana, rurale e non, si trasformano in accuse per promesse non mantenute, dal presidente, dal governo, dalla politica. Così l’elemento che osservatori esterni e interni notano è un malcontento generalizzato e trasversale di chi è fuori dagli apparati istituzionali: legislativo e amministrativo, militare, teologico. E il quadro non è neppure così definito, perché le piazze della protesta possono essere anche stimolare e agitate dalle fazioni ufficiali: conservatori contro riformisti e moderati, elettori di quest’ultimo blocco, che ha confermato al vertice il chierico diplomatico Rohani, ma sono stufe di non vedere risolti problemi spicci ma essenziali: carovita, corruzione di molti apparati, mancanza di risorse per l’occupazione giovanile. Questioni simili ad altre parti del mondo, ma nella specificità iraniana ancor più particolari.

Perché per almeno due delle ultime generazioni questo Paese è stato un faro: di lotta all’ingerenza dell’imperialismo occidentale, che aveva radici antiche nel golpe anti Mossadeq  e repressioni sanguinose di una delle più feroci monarchie della storia mondiale recente, quella dello Shah Reza Pahlavi. Quando il divario fra la ricchezza di pochi e la miseria di milioni di anime rappresentava uno dei tanti sfregi operati dai governi-fantoccio sostenuti dalle Sette Sorelle in Medio Oriente. L’Iran della ribellione anti monarchica di fine anni Settanta visse anche una cruenta lotta interna, fra una sinistra tradizionalista (Tudeh) e rivoluzionaria (mujaheddin) contro un Islam politico che risultava più pragmatico degli avversari laici. Tanto che mullah e ayatollah finirono per catturare consensi sempre maggiori per quella vicinanza al sentire di strati sociali umili che teorici di una sorta di marxismo islamico, come Shariati, avevano introdotto nel movimento prima di contestazione, quindi di ribellione alla dinastia Pahlavi. E al di là del proprio ieratico carisma, Khomeini otteneva consenso e seguito per una pratica politico-organizzativa più leninista di certe posizioni presenti nella  sinistra ufficiale.

Uno di questi, l’armata in nuce trasformatasi nei Guardiani della Rivoluzione, ha posto le basi del potere politico clericale, facendo accettare anche forzature come quel velayat-e faqih che non era benvisto da taluni ayatollah, ed è diventato nel tempo una zavorra per il regime che gli aliena l’assenso giovanile. Ecco, due elementi che riecheggiano nel malcontento degli ultimi anni in una nazione in cui i giovani sono tanti e le donne idem: repulsione della teocrazia per il mantenimento di regole che, pur non raggiungendo il fanatismo del sunnismo salafita (tutt’altro, visto che lo sciismo se ne distingue per orientamenti teorici e pratici) mantengono formule che stanno strette anche a ragazze fedeli all’Islam. Inoltre gli attuali ventenni e trentenni, ovviamente anche di sesso maschile, non hanno vissuto sulla pelle i sacrifici compiuti da padri e fratelli maggiori immolatisi per la patria nella guerra contro Saddam. Magari portano, e rispettano, lutti familiari, come testimoniano le immagini dei martiri della causa iraniana in quella guerra presenti in città e angoli sperduti del Paese, ma tutto è mediato. E forse da alcuni, neppure tanto meditato. Certo è che o si appartiene a quella che è stata definita la ‘generazione del fronte’, che ha incrementato il senso di corpo di pasdaran e basij, oppure il pur sempre vivo nazionalismo si stempera o si volatizza.

Si vocifera che fra le insofferenze odierne per il carovita ci siano le considerazioni di chi vede aumentare generi di prima necessità come le uova, e prossimamente anche i carburanti, per sostenere l’impegno militare iraniano su fronti esterni. Non difesa della patria, tuttora sotto minaccia imperialista e sionista, ma difesa dei suoi interessi più generali (i detrattori dicono di potenza regionale in antagonismo soprattutto alla dinastia saudita, ma anche del sultano Erdoğan) nei vari conflitti locali in terra mediorientale, di cui il campo di battaglia siriano è stato, ed è tuttora, il più oneroso. Chi grida di voler pensare al futuro in casa e non alla causa di Gaza può essere sprovveduto, qualunquista o al servizio di quei soggetti che in queste ore gracchiano come corvi più che cinguettare da social network, come fa Trump o tramite interviste ufficiali il suo protetto Netanyahu. E’ chiaro che i nemici dell’Iran - non di Rohani, degli ayatollah o della Rivoluzione Islamica - sbavano per una destabilizzazione di quell’area, ma sostenere che le campagne militari all’estero hanno costi che tolgono risorse interne in una fase di oggettiva difficoltà economica può risultare una cruda verità. Da tempo Rohani si barcamena, forse il terreno sotto i piedi glielo minano proprio i chierici conservatori vicini a Khamenei e oltre la sua guida. Ovvero ad agitare anima e corpo di tanti iraniani sia il desiderio di scuffiare i turbanti e togliersi il velo. Un solo pericolo: che la voglia di nuovo peschi in tendenze e periodi torbidi. C’è chi giura che gli anticorpi esistono, l’incognita resta.  

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