giovedì 11 gennaio 2018

Tunisia 2018: rabbia sedimentata


In strada, urlando, magari non in tanti come ai tempi di Ben Ali, ma l’ondata di proteste monta. Per ora trecento arresti e un morto e può accadere il peggio. Nella periferia meridionale di Tunisi oppure nella turistica Djerba, ai margini dell’anniversario - il settimo - dall’esplosione di quella rivolta che fece da apripista per le primavere arabe, presto sfiorite, calpestate, trasformate in altro. Sono migliaia, giovani e meno, studentesse e padri di famiglia visto che le contraddizioni restano tutte. Perché in questi anni le mutazioni governative, istituzionali e costituzionali, in Tunisia come in Egitto, non hanno mutato la sostanza. Carovita, disoccupazione, in molte aree anche miseria, restano lo spettro con cui si misurano tutti: cittadini scontenti e ustionati da una realtà che appare immutabile e politici incapaci di fornire sostanza alle molteplici formule di conduzione amministrativa. Oggi in Tunisia governa una coalizione di liberali della formazione Nidaa Tounes, primo partito alle elezioni del 2014, e degli islamisti di Ennahda, meno oltranzisti d’un tempo, più aperti e possibilisti tanto da aver accettato la collaborazione. Però la voce del popolo nelle strade, nei suq, nelle periferie e quella educata allo studio nelle università mostra lo scontento antico di quando i finti progressisti del clan Ben Ali-Trabelsi, accaparravano per sé, affamando la gente, complici i governi italiani e francesi che finanziavano la metà del Pil del Paese.

Fuggendo a Riyad, senza che la comunità internazionale li perseguisse su nulla, si portarono dietro una cinquantina di milioni di dollari, solo in lingotti d’oro. Eppure la nazione s’è ritrovata altri patrigni, immersi in una lotta per il potere che ha visto scontro aperto fra l’ala islamista del pur filosoficamente pacifico Gannouchi ed epigoni del presidente Bourguiba. Uno di questi Baji Caid Essebsi ha creato quel partito (Nidaa Tounes) che alle elezioni del 2014 ha ottenuto il 37% dei consensi, contro il 27% di Ennahda. Con l’opposizione di sinistra del Fronte Popolare ridotta a poco più del 3%. Questo prima della caduta di consensi, dovuta anche al clima di paura creato dallo scontro armato che nel febbraio 2013 aveva condotto all’assassinio dell’esponente di spicco Chokri Belaid, aveva col suo leader cercato di contrastare la popolarità islamista formando quel raggruppamento laico-progressista antagonista al governo confessionale di Ennahda. Nel 2013 oltre a Belaid, un altro rappresentante laico e deputato del Movimento del Popolo, Brahmi, veniva assassinato a colpi di pistola. Era l’Islam jihadista che cercava di destabilizzare la linea moderata di Gannouchi per offrire sponda alla creatura fondamentalista materializzatasi nell’Isis e nel progetto di Al Baghdadi.

Il Paese maghrebino, che risulta assieme al Marocco uno dei maggiori fornitori di combattenti stranieri alle azioni imbastite dal Daesh in Europa e altrove, ha subìto pure le scosse stragiste al museo del Bardo e a un resort di Sousse, rispettivamente nel marzo e giugno 2015, decine le  vittime fra cui turisti italiani. Si è fortemente concentrato sulla questione sicurezza, investendo denaro per rafforzare forze dell’ordine ed esercito, tralasciando politiche sociali e investimenti. Il settore industriale della costa, già da anni contratto per carenza di capitali esteri e quello del turismo, in crisi per le menzionate ragioni di sicurezza, sono rimasti in bilico. Nell’anno appena concluso quest’ultime stime sono in ripresa, ma non bastano a risollevare una disoccupazione attestata al 18% nazionale e al 30% per i giovani. Ora riaumentano i generi alimentari, non il pane com’era nel 2010, ma quelli che solo una società arcaica può considerare prodotti superflui: caffè, thè, frutta e aumentano benzina e gasolio, che fanno da traino a ogni sorta di rincaro. La gente non ce la fa: urla, protesta, brucia copertoni, scene già viste, sono le soluzioni che mancano. L’Occidente dal colonialismo di ritorno, fautore di servizi che, con le sue multinazionali, si riprende il doppio e il triplo di ciò che offre, per ora lesina finanziamenti e fa latitare investimenti. Ci pensa il Fondo monetario internazionale ad avanzare aiuti (2.8 miliardi di dollari), chiedendo in cambio una riforma con rincari che strangolano le vite. I risultati si vedono tutti.

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