sabato 27 gennaio 2018

Cimitero-Kabul: la strage continua


Novantacinque corpi straziati, centocinquantotto feriti, fra i tanti lacerati altri perderanno la vita. Kabul centralissima, quella teoricamente super blindata e di fatto aperta alle incursioni. Perché se a portare l’attacco, come in questo caso (e a differenza degli uffici di ‘Save the childern’ di Jalalabad), sono i talebani molti varchi risultano aperti dalle infiltrazioni e collaborazioni presenti fra soldati e ufficiali dell’esercito afghano. Oppure da strumenti sanitari: un’ambulanza nella quale era stipato l’esplosivo che i turbanti hanno fatto brillare. In quale punto della capitale? Lì dove la contraddizione dei simboli parla chiarissimo: presso un’inutile sede dell’Alto Consiglio della pace, in uno snodo vitale della grande arteria di scorrimento denominata Salang wat Road. Nei pressi di un ospedale (Jamhuriat) che sorge fra tante ambasciate: l’indiana, la svedese. E poi, a neppure mezzo chilometro, quelle strategiche: la cinese e poco più su l’iraniana e la francese. Il messaggio al presidente Ghani è tranciante come l’esplosione che fa saltare migliaia di vetri, accecante come il fumo e la polvere rosata che per ore hanno veleggiato sulla città: qui comandiamo noi e vista l’aria che tira con la concorrenza dell’Isis che vuole insidiare a suon di botti il nostro terreno, ascolta l’ennesimo avvertimento e fatti da parte. Il punto di non ritorno che ha assunto la situazione afghana negli ultimi due anni, vede l’amministrazione fantoccio tenuta in pedi dall’opportunistica autoreferenzialità statunitense, nell’assoluta impossibilità di conseguire qualsiasi obiettivo.

Ghani non riesce a governare, non l’ha mai fatto anche quando ha evitato uno scontro di fazione fra pashtun creando la diarchia con Abdullah. Non sono serviti gli ex signori della guerra vestiti da ex presidenti (Dostum) e da ministri. Non sembra aver pagato neppure la cooptazione del fondamentalista Hekmatyar nel ruolo di mediatore coi taliban, perché Washington non riuscendo a batterli ha rilanciato l’ipotesi di accordo, magari inserendoli nel governo. I Talib, sempre rissosi, e spaccati dopo l’ufficializzazione della scomparsa del mullah Omar, tenuta tatticamente celata per oltre due anni, hanno trovato sotto nuove guide (Mansour e Akhundzada) una parziale unità, sebbene molte schegge si fossero separate già dal 2013: nelle aree tribali delle Fata, confluendo verso i Tehrik-e Talib del Waziristan, e nella provincia del Nuristan o in quella sempre borderline dell’antico Khorasan che sconfina nell’attuale Iran, dove è sempre attivo l’Islamic State Khorasan Province, unico gruppo che ha resistito all’ampia controffensiva talib Occorre tener presente quest’orizzonte per comprendere il crescente caos afghano, dov’è in atto uno scontro nello scontro. Quello primario si rivolge al governo kabuliota e all’imperialismo occidentale che lo sostiene. L’altro è una lotta di crudeltà, combattuta a suon di attentati col Daesh che s’è insinuato in territorio afghano.

Ne abbiamo parlato in occasione di altre stragi, attuate contro l’etnia sciita locale (gli hazara), ma ormai gli stessi pashtun sunniti risultano vittime inconsapevoli della corsa alla bomba più devastante, alla strage più sanguinosa che fanno del Paese un cimitero allargato. Una devastazione sulla devastazione avviata dall’Enduring Freedom e proseguita negli ultimi diciassette anni dalle truppe Nato di ‘missioni di pace’ dai nomi cangianti e dalla sostanza destabilizzante. Un Occidente che scuote e scassa come talebani e jihadisti, visto che quest’ultimi continuano a misurarsi e reclutare anche perché nel Paese il conflitto strisciante prosegue, sia con l’obamiana guerra dei droni, sia con “la madre di tutte le bombe” proposta da Trump. Simili attacchi hanno effetti sanguinari, nel caso della Moab, più sui civili che sui miliziani che, invece, subiscono maggiormente dalle esecuzioni mirate com’è accaduto ai tre emiri dell’Isis afghano (Saeed Khan, Abdul Hasis, Abu Saeed) freddati, via aria, fra il 2016 e metà 2017. Ma, appunto, la presenza dell’aviazione statunitense e delle truppe d’occupazione offrono ai due contendenti il meraviglioso alibi di difendere il popolo afghano dall’ingerenza imperialista. Se in quest’affermazione è sicuramente vera la seconda parte, la prima diventa una lotta per la supremazia fondamentalista, usurpatrice d’un popolo stremato e martoriato.

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