venerdì 22 dicembre 2017

Nazioni Unite, il ceffone a Trump


Gerusalemme non è la capitale di Israele, né potrà esserlo. Lo dicono 128 nazioni delle Nazioni Unite, fra cui l’Italia (alleluja), che rigettano il piano Trump di fare l’ennesimo favore alla politica annessionista dello Stato sionista. La reazione americana è stata scomposta e minacciosa “Non ci dimenticheremo di questo voto” ha affermato Nikki Haley, l’ambasciatrice-militante del presidente Usa, che già aveva annunciato di fare la lista di amici e nemici della proposta della Casa Bianca. Una vendetta che ruota attorno al denaro, difatti esplicito era stato il riferimento ai fondi d’aiuto previsti, soprattutto per i Paesi africani. Ma il fronte islamico di quel continente e di quello asiatico hanno opposto un netto rifiuto di ‘farsi comperare’ coi dollari. Anche alleati storici d’Oltreoceano, come diverse nazioni europee, hanno voltato le spalle a una proposta unilaterale e divisiva che mina una situazione già fortemente svantaggiata per il popolo palestinese, da cinquant’anni sottoposto a un’occupazione militare illegale.
Israele, che delle risoluzioni delle Nazioni Unite se ne infischia, ha rigettato la votazione; con la sua solita boria Netanyahu dichiarava che “finirà nella spazzatura della Storia”. Il ricatto della mancata assistenza non ha retto anche perché l’amministrazione Trump, nel continuare a rilanciare il programma dell’America First, ha palesato un’ulteriore diminuzione per il 2018 degli aiuti esteri. Se la voce della cosiddetta “assistenza” globale nell’anno 2015 ammontava a 58 miliardi di dollari (la metà dei quali erano rivolti ad accordi economici bilaterali, il 35% alla sicurezza e sostegno militari, il 16% all’assistenza umanitari), il budget per l’anno che verrà è sceso a 25.6 miliardi di dollari. E l’orientamento degli stessi è ovviamente direzionato secondo interessi geostrategici, ad esempio Israele riceverà 3.1 miliardi, contro l’1.3 dell’Egitto e uno della Giordania. I “regali” scemano a caduta in base alla valutazione degli interessi americani, così si sa di 384 milioni di dollari all’Iraq, 104 al Libano, 55 alla Tunisia, 31 alla Libia, 16 al Marocco, ecc.  
Lo stesso ricatto dei fondi è un’arma a doppio taglio, è il caso di dirlo. Come ribadito, una parte degli aiuti giunge sotto forma di armamenti e servizi per la difesa, e se nel caso di Paesi arabi che ricoprono una funzione importante per posizione geografica e influenza politica, prendiamo l’Egitto e l’Arabia Saudita, le casse statali di ciascuno mostrano situazioni ben differenti, grazie a cui Riyadh può permettersi di pagare in proprio la tecnologia bellica di cui viene dotata. Ma è interesse degli stessi americani coprire più fronti possibili, come hanno fatto negli ultimi cinquant’anni. A tale proposito diversi senatori repubblicani lanciano  l’ennesimo monito verso l’attuale amministrazione che sta “compromettendo gli ultimi cinquant’anni di politica estera”, incentrati sul binomio di un avanzamento del processo di pace internazionale seppure letto secondo gli interessi di parte. Ora gli Usa perdono il ruolo di mediazione che ne aveva caratterizzato varie iniziative anche in Medio Oriente. E se nello Studio Ovale non se ne preoccupano, il livello d’allarme cresce anche in casa repubblicana. Oltre che nel mondo.

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