Quarantadue giorni
d’indagini con in testa la polizia maltese, ma anche l’Fbi ed Europol, portano
al fermo di dieci sospettati, una banda di malavitosi che avrebbero eseguito
l’omicidio della giornalista Caruana Galizia. Il primo ministro Muscat parlando
di operazione ancora in corso, può comunque presentare un primo risultato a
conferma di quanto aveva dichiarato subito dopo l’omicidio: agli esecutori di
questo barbaro gesto non bisogna dar tregua. Alle indagini ha offerto il
contributo la tecnologia: la disamina delle celle telefoniche di vecchie
conoscenze degli inquirenti che evidenziavano come tre portatili appartenenti a
personaggi malavitosi già noti alla polizia locale, fra cui due fratelli, erano
attivi nei minuti in cui è avvenuta la deflagrazione dell’auto (presa a nolo)
su cui viaggiava la cronista. Due telefoni avrebbero fatto da vedetta durante
il transito della vettura, uno è servito per innescare la carica di plastico
piazzata sotto la scocca. I soggetti fermati hanno precedenti per traffico di
armi e droga, potrebbero essere coinvolti in quello smercio di petrolio libico,
operato anche da gruppi jihadisti che coinvolge privati e nazioni committenti.
Era uno dei filoni delle indagini giornalistiche compiute dalla vittima.
Uno. Perché ciò che
aveva infastidito maggiormente il premier laburista dell’isola, detta del
tesoro per i segreti sui conti bancari offshore un tempo gestiti in loco e in
seguito sparsi in differenti paradisi fiscali, erano altri affari con base a La
Valletta. Taluni riguardavano personalmente lui e alcuni ministri del governo.
Dalla società Egrant, intestata alla moglie Michelle, sul cui conto erano
transitati i denari versati dal presidente azero Alijev per l’affare del
metanodotto che porterà il gas dal Paese caucasico in Europa. Muscat avrebbe
avuto il ruolo di facilitatore politico durante il periodo di sua presidenza di
turno al Parlamento Europeo. Implicato nella vicenda, presente nel dossier
denominato Panama Papers, anche il ministro Mizzi, parimente coinvolto in
intrighi finanziari con una società intestata a suo nome e sede in Nuova
Zelanda che forniva “servizi” nell’isola. Un altro degli aspetti evidenziato dagli
articoli-denuncia di Caruana Galizia era l’inquietante, ma ormai da anni non
segreta, attività di contatto fra criminalità locale e altre straniere,
comprese cosche siciliane. Ai soliti traffici di armi e stupefacenti,
facilitati dal traffico marittimo e dalla posizione dell’isola, s’univano i
nuovi affari.
I contrabbandi di
idrocarburi e la tratta di uomini, drammatiche piaghe che la destabilizzazione
politica mediorientale ha riversato da oltre cinque anni sul Mediterraneo. Simili
business, gestiti dalle mafie di varie nazioni che fanno cartello e si compenetrano,
s’interfacciano a soggetti che ufficialmente fungono da tramite con aziende
private e di Stato. Questo sottobosco trova nella lassità di norme e di
controlli “dell’isola del tesoro” un terreno fertilissimo, un sistema reso tale
dalle compiacenze della politica locale, di maggioranza e d’opposizione, e dai
massimi rappresentanti istituzionali. Tutto ciò denunciava Daphne. E questo
ormai infastidiva i vertici nazionali, oltre che la manovalanza maltese del
malaffare. Gli inquirenti, se vorranno, potranno indagare se quest’ultima, come
il manipolo dei fermati e probabilmente arrestati, ha agito di sua sponte.
Scelta sempre rara quando si tratta di semplici banditi che agiscono per conto terzi. Certo, attualmente il primo
ministro può vantare rapidità d’inchiesta e cattura di probabili omicidi,
mostrandosi come integerrimo cacciatore di criminali e passando da politico sospettato
a politico persecutore di giustizia. A meno che qualcuno dei fermati scelga di
collaborare e rivelare possibili intrecci
segreti. Quelli attorno ai quali la giornalista assassinata indagava.
Quelli che i suoi familiari indicano come il vero filo della losca storia. Se
la ricerca della verità sarà resa possibile.
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