C’è un pezzo di politica egiziana, quella non
finita nelle prigioni ordinarie e degli scomparsi, che inizia a interrogarsi su
quale quotidianità si prospetti al proprio Paese. Lo fa con circa due anni di
ritardo dal golpe bianco dell’esercito, prendendo spunto dalla propria
condizione di mancato parlamentare. Mancato perché quell’Istituzione stenta a
ricomparire nelle dinamiche politiche interne, definibili in vari modi tranne
che democratiche. Per chi non ricordasse: il Parlamento del Cairo venne sciolto
a fine giugno del 2012, subito dopo l’elezione a presidente dell’islamista
Mursi. Ma non fu lui o il suo partito a cancellare l’Assemblea del Popolo,
bensì l’ancora attivo Consiglio Supremo delle Forze Armate che continuava a
essere il convitato di pietra della scena politica interna. Con quel taglio si
voleva impedire al governo della Fratellanza Musulmana, che aveva fatto il
pieno di consensi alle consultazioni del 2011-2012, di trovare nell’organo
rappresentativo del Paese un sostegno alla propria azione politica. Dopo la
legittimazione elettorale dell’anno scorso Al-Sisi aveva promesso di giungere
nei mesi successivi alla scadenza consultiva per riformare il Parlamento. Ma
anche le programmate scadenze del marzo scorso e del presente mese di maggio
sono venute meno.
Nel commentare la cancellazione il
generale-presidente afferma che la consultazione eventualmente avverrà dopo il
mese santo del Ramadan, che si concluderà a metà luglio. Il periodo rilanciato
è ottobre, seppure a crederci sono rimasti in pochi. I due motivi di rinvio
sono finora stati: la sicurezza interna mesa in pericolo dalla sequela di
attentati e l’ulteriore ritocco alle percentuali di rappresentanza, la cui
ultima versione sfornata dalla preposta Commissione di studio prevede: 596 deputati,
448 eletti come indipendenti (seppure
appoggiati direttamente o meno a liste di partito), 120 espressione di partiti
e 28 nominati dal Capo di Stato. Anche analisti rimasti per mesi silenziosi o
in surplace di fronte alla linea repressiva incarnata da Sisi e colleghi
militari, cominciano a dubitare sulle intenzioni realmente democratiche del
presidente. Temono che l’emergenza sicurezza diventi l’alibi per tenere
congelata la scena. Anche la sequela d’incidenti e catastrofi interne ricordano
una tattica in voga ai tempi di Mubarak. Ultimamente sono stati colpiti
tralicci elettrici nel governatorato di Beheira, quindi un episodio simile s’è
ripetuto a piloni del Cairo Media Center. E ancora: milioni di danni per un
deragliamento della metropolitana della capitale e il crollo di un ponte a
Mansoura, nel Delta del Nilo. Fino all’affondamento d’un carico di 500
tonnellate di fosfato nel grande fiume presso la città di Qena.
Casualità, sfortuna, negligenze nei controlli e
nell’organizzazione del lavoro? Può darsi, ma in molti rammentano come questo
genere di “emergenze” create ad arte, consentivano a presidenti autocrati alla
Mubarak, e predecessori, a concentrare l’attenzione sulle stesse, evitando
differenti impegni. Un modo di governare, dunque, tenendo la popolazione con
l’acqua alla gola e nell’incertezza del presente. Così la questione dei diritti
umani violati, sollevati non solo da Amnesty International ma nelle ultime
settimane anche da commentatori locali, passa in seconda e terza linea, schiacciata
da cronache più o meno catastrofiche. Oppure la condizione dei beduini del
Sinai, arrestati in massa e in alcune circostanze passati per le armi durante
repressioni antiterroristiche, pagano il pegno alla sicurezza nazionale messa
in forse dalla presenza jihadista. Ridanno fiato a un malcontento anche quei
socialisti che avevano offerto copertura di sinistra alla cosiddetta
“rivoluzione della seconda primavera” (del 30 giugno 2013) con cui milioni di
cittadini manifestarono contro Mursi, chiedendone la rimozione. Invece i
nasseriani sono sempre al fianco dell’uomo forte, che “ha fatto un brillante lavoro, migliorando le relazioni con gli Usa,
difendendo la nazione dal terrorismo e puntando allo sviluppo economico“.
Proprio così. Affermazioni da campagna elettorale, che però non c’è.
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