Non ce la fa Palmira a preservarsi dai
conquistatori jihadisti, dopo che per giorni il fronte era arrivato fra le sue
vestigia, coi seguaci di Al Baghdadi e l’esercito di Asad a combattersi ai
bordi dell’area archeologica. Tramite la cittadina-museo i fondamentalisti
dello Stato Islamico s’impossessano anche dell’importate via di comunicazione meridionale
verso Damasco. La capitale dista circa 200 chilometri. La morsa sulla zona
monumentale di Palmira è stata attuata da entrambi i contendenti, i soldati
siriani in ritirata hanno continuato a lanciare missili sulle milizie nere e
sulle preziose pietre millenarie.
Chi ha avuto la gioia di riempirsi gli occhi coi
‘vapori dell’aurora dalle dita rosate’ che le gemme di Palmira donano da
millenni, può solo lacrimare. La rimpiangono pacifici carovanieri, beduini,
mercanti sino agli odierni turisti presenti anche durante il primo deflagrare
del conflitto civile-tribale-religioso-politico e maledettamente geopolitico
che insanguina da quattro anni quel che resta della Repubblica Araba di Siria.
Chiamata così da settant’anni, ma che era stata colonia francese, territorio
ottomano, arabo, greco-romano, seleucide, babilonese e prim’ancora egiziano. Su
tutto: Palmira, l’oasi, l’estatica visione.
Per il mondo dell’arte ammaliato dalle sue
colonne che pari a steli sbocciano ovunque fra la polvere rossastra, l’assedio
alla Storia è più doloroso d’ogni presunta blasfemìa di cui blaterano gli
uomini dagli stendardi neri. Contro cui servirebbe una nuova Zenobia, donna
forte, amante della vita e delle culture
plurali. L’esatto contrario dei sistemi chiusi attorno a fedi esasperate e
ossessioni del proprio dio, troppo spesso carpito e usato per il potere. Smarrita
nei secoli la sua raffinata osmosi di culture Palmira rischia di perdere i
pregiati massi. Già si parla di statue rimosse da salvare e all’inverso da
distruggere o trafugare.
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