Voltano le spalle agli obiettivi dei fotografi
gli emiri delle petromonarchie, ma le girano principalmente a Obama, un
presidente considerato ormai ben poco amico. Di fatto nel giro d’incontri avviato
ieri alla Casa Bianca il re dei re della dinastìa Saud, Salman, non s’è
presentato. Impegnato in affari interni che hanno un sapore internazionale,
perché, come dichiarano svariate agenzie, il sovrano dell’Arabia sta
pianificando le prossime strategie d’attacco ai ribelli Houti, nello Yemen. Uno
sviluppo dell’ulteriore crisi che infiamma il Medioriente ma in una latitudine
ben vicina alla penisola arabica. Quel
che non piace a re Salman - e agli amici-alleati di Emirati Arabi Uniti, Oman e
Bahrein - è la politica della mano tesa che il primo cittadino statunitense ha
avviato con l’omologo Rohani. L’Iran è il grande competitore nella regione ai
disegni che la dinastia di Riyad persegue da decenni, e la monarchia è a suo
agio nei panni del controllore del mondo arabo e delle riserve energetiche.
Un binomio d’intenti che ha condiviso con la
politica estera americana nell’area, dove ciascuno ricavava vantaggi e
compenetrava l’altrui interesse. Non importa se in fatto di diritti umani e
fondamentalismo diffuso la nazione saudita incarna quanto di più estremo e
destabilizzante il mondo conosca. Eppure da qualche tempo il mutuo soccorso fra
Washington e Riyad appare incrinato, e i forfeit di queste ore lo dimostrano.
Responsabili le differenti visioni sull’alito delle ‘Primavere’ represse nel
sangue o comunque bypassate in ogni nazione mediorientale e gli ‘stop and go’
di Obama in fatto di azioni di apertamente militari. Da lui non sono benviste le operazioni della
Confederazione del Golfo in terra yemenita, e se aviatori americani e sauditi
cooperano per combattere lo Stato Islamico, Riyad continua a richiedere
maggiori azioni di forza contro Asad che, invece, lasciano Obama riluttante.
Fino a qualche tempo fa ogni presidente statunitense
guardava oltre le questioni sociopolitiche del grande Stato del Golfo perché
tutto era misurato col metro dei barili di petrolio; che continuano a
rappresentare un fattore determinante ma ora non indispensabile. Almeno per le
nuove prospettive energetiche americane. Esse non riguardano esclusivamente la
frontiera estrattiva dello shale gas, che mostra gli States in cima a qualsiasi
campagna grazie alle nuove riserve di scisti bituminosi scoperti in alcuni
Stati confederali (Nord Dakota) e in Alaska, seppure in barba alle
contraddittorie conseguenze e ai pericoli che il metodo impone al geosistema.
Già da un paio d’anni esperti di settore come l’International Energy Agency sottolineano le potenzialità americane
legate alla citata di estrazione, fra un quinquennio gli Usa potrebbero
contendere la leadership alla stessa Arabia Saudita che non sarebbe più una
nazione chiave, ma un competitore. Il mercato fa fluttuare simpatie e odi,
vedremo se le diplomazie in smoking e djellabah continueranno a frequentarsi.
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