Mohamed Sultan, rinchiuso da tredici mesi nella
prigione cairota di Tora, non è un detenuto qualsiasi. Non che le altre
migliaia di concittadini imprigionati siano in posizione diversa dalla sua, ma
essere un noto portavoce del movimento di protesta di Rabaa al-Adawiya l’ha
reso celebre. In più i familiari del ventiseinne, laureato in economia
all’Università dell’Ohio, hanno fatto pesare la loro seconda nazionalità statunitense.
Eppure come per il trio di giornalisti di Al Jazeera arrestati con l’accusa di
appoggiare il disegno eversivo della Fratellanza Musulmana, non c’è stato
verso: il regime di Al Sisi non fa sconti di trattamento neppure a chi può
vantare evidenti posizione pubbliche. Sultan dal gennaio scorso ha iniziato,
come centinaia di detenuti, uno sciopero della fame mirato ad accorciare i
tempi del processo che al contrario s’allungano. La tattica
dell’amministrazione giudiziaria, concorde col potere politico, è quella di
lasciar trascorrere i mesi. Lo sciopero della fame, che vede un’ampia rete di
solidarietà col gesto estremo di protesta da parte d’un numero crescente di
persone, è ormai un caso di cui si stanno occupando anche organizzazione dei
diritti umani. C’è chi vuole portare l’interpellanza
alle Nazioni Unite, sebbene il fulcro della restaurazione egiziana abbia un
valore esclusivamente geopolitico.
Le galere del Paese pullulano d’una quantità di
veri e propri prigionieri ideologici, che vanno dai vertici ai semplici
militanti della Brotherhood (si parla di oltre dodicimila unità), e di altre
migliaia di attivisti di quello che è stato il movimento di piazza Tharir nelle
sue forme organizzate (6 Aprile) e non. Più un cospicuo nucleo di giornalisti
ufficiali, ufficiosi e blogger, di coloro che per mesi hanno usato ogni spazio
sui social network più noti - You Tube e Facebook - per divulgare quanto
vedevano nella strade, che comunque dallo scorso febbraio si sono
definitivamente tacitate. L’investitura di Sisi alla Presidenza della Repubblica
ha imbavagliato ogni voce di dissenso. Sono scomparse anche quelle
dell’opposizione ufficiale (neo nasseriani e liberali) che s’erano misurate col
generale nello scontro elettorale. In questi mesi, la scure della repressione
giudiziaria è calata su volti noti come il blogger Alaa Abdel Fattah,
condannato a 15 anni di prigione per la partecipazione attiva ai cortei contro
i militari golpisti, dopo che dal novembre 2013 leggi draconiane vietano non
solo proteste e manifestazioni di piazza, ma qualsiasi assembramento che abbia
parvenza di richiesta di democrazia. La vita collettiva è regredita,
ripristinando la paura e la delazione dell’epoca Mubarak.
Nel degrado crescente sono tornate torture di
vario genere ai detenuti politici. Quest’estate una cinquantina di ragazze nella
prigione Koum El Dekka di Alessandria hanno denunciato, tramite un’associazione
panaraba per i diritti con sede a Ginevra, d’avere subìto elettroshock nelle
parti genitali, bruciature con mozziconi di sigaretta, tentativi e stupri
realmente attuati ai loro danni da guardie e officiali carcerari. Con
l’aggiunta di minacce d’aggressione tramite feroci cani tenuti al guinzaglio,
pratica totalmente estranea ai costumi islamici. Si è tornati a quella società
vischiosa che nelle prime settimane della Primavera lanciata contro l’antico
raìs avevano registrato casi come quello di Samira Ibrahim, la manifestante
“visitata” da un ufficiale dell’esercito dentro il museo del Cairo con la
compiacenza di donne che lavoravano per l’Intelligence. Un establishment schiacciato nella dimensione che ha rivestito
per un quarantennio: oppressore del suo
popolo, responsabile di una povertà diffusa e resa cronica. Una casta dirigente
accaparratrice di risorse secondo logiche che creano diseguaglianze e privilegi
per pochi intimi. Un gruppo di potere formato da militari, magnati e magistrati
servitori della politica internazionale che gli assegna compiti di mera
esecutività di decisioni prese altrove. Un Egitto prono al volere dell’altrui
potere.
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