Nel mondo
alla rovescia afghano
vince chi perde, nella fattispecie Ashraf Ghani, cui s’assegna il titolo di neo
presidente. L’accordo col suo avversario Abdullah - vincitore sicuramente della
fase elettorale d’aprile, poi nel faccia a faccia di giugno ciascuno diceva
d’aver prevalso - vede quest’ultimo diventare capo dell’Esecutivo. I due, sotto
la regia a distanza del segretario di Stato americano Kerry, avevano già
concordato la diarchia da alcune settimane. L’inconcludente Commissione
Elettorale Indipendente e l’Onu, che avrebbero verificato i milioni di voti
contestati da entrambe le parti, hanno ratificato il risultato senza offrire
alcuna percentuale. La sedicente “soluzione della crisi” è solo una farsesca
chiusura dell’ennesima messa in scena di democratizzazione del Paese attraverso il voto, che cerca di sopperire a
un vuoto ufficiale di mansioni. Coi due incarichi assegnati dopo quattro mesi
di liti, minacce e impasse si cerca di riprendere il filo del piano di
normalizzazione sempre caro all’Occidente. Tutto ricomincerà dalla firma del Bilateral Security Agreement, il patto
che il bizzoso Karzai di fine mandato, prima accettò poi non sottoscrisse. Un
accordo che gli Stati Uniti pretendono per poter legittimare il prosieguo d’una
presenza armata in un’area per loro sempre ad alto interesse.
Il 2014,
indicato come l’anno del grande ritiro dell’Us Army dal Paese, continuerà a vedere
fra i dieci e i ventimila soldati, concentrati nelle basi aeree, quelle create
e quelle in via di ampliamento, per completare un doppio piano geostrategico, militare
ed economico. Una presenza nel cuore dell’Asia risulta indispensabile a
Washington con l’acuirsi di varie crisi locali, il controllo dello spazio aereo
coi droni ha questa funzione. Lo sfruttamento di particolari risorse del
sottosuolo afghano come le “terre rare” conduce gli Usa a non lasciare lo
sfruttamento dei preziosi minerali alla sola potenza cinese. La produzione
hi-tech ha fame di simili rocce dai nomi strani: cerio, scandio, etc. Gli
occorrono per costruire computer e telefonini, lampade e macchine digitali, ma
anche missili teleguidati e satelliti. Una corsa nella quale grazie a
competenze pluridecennali i nordamericani sono tuttora leader, inseguiti ormai
dappresso da cinesi e indiani. Perciò il quadro politico attorno a Kabul
necessita d’un contorno simile al passato, affinché nulla cambi. Per
l’ufficialità e i consessi internazionali Ghani mostra tratti più spendibili di
Abdullah. Ma solo dopo aver trovato un accordo che garantisca ai due e ai
propri alleati (Dostum il primo, Sayyaf e Sherzai, per tacere di Helal, il
secondo, tutti signori della guerra) di cogestire potere e sottopotere nelle
province.
Ghani è un
pashtun
come Karzai, in queste elezioni per acchiappare sul fronte etnico si è proposto
anche col nome tribale di Ahmadzai. E’ come chi l’ha preceduto fedele
all’Occidente. Formato in casa nella New York Columbia University, quindi
economista della Banca Mondiale, rientrò in Afghanistan col lancio del ‘corso
democratico’ post talebano, nel quale si distinse come ministro delle Finanze
dal 2002 al 2004. In quella veste introdusse valuta nuova e impostò un sistema
di tasse che non riequilibrava una situazione dove il peso di criminalità,
corruzione dei funzionari, familismo coinvolto nella spartizione politica vide
numerosi episodi di malgoverno (si pensi allo scandalo della Kabul Bank che
coinvolgeva direttamente il presidente sorretto da Washington). Nel discorso
d’insediamento il nuovo Capo della Repubblica Islamica ha ricordato il successo
dell’unità nazionale, sicuramente frutto del compromesso che l’ha collocato
nell’attuale posizione. E non si sa quanto cosciente di un’involontaria
comicità ha affermato: “Per la prima
volta nella nostra storia il potere si trasferisce da un presidente eletto a un
altro”.
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