martedì 16 settembre 2014

Isis e l’attacco al reporter


Lancia l’allarme il giornalista e scrittore Ahmed Rashid, decano dell’informazione fatta vis-à-vis con l’uomo nero. Negli anni Novanta lui i Talebani li ha conosciuti e frequentati, tanto da dedicargli un lavoro (Talebani, da noi Economica Feltrinelli) diventato un bestseller della geopolitica di quell’area denominata Fata (Federally Administred Tribal Area) a cavallo fra le nazioni afghana e pakistana create dal colonialismo britannico. L’ampia regione che raccoglie i seguaci del mullah Omar e della Shura di Quetta, la Rete di Haqqani, i Taliban del Punjab e gli inconciliabili del Tehreek-e-Nefaz-e-Shariat-e-Mohammadi. Ricorda Rashid stesso in un articolo apparso su La Repubblica: “Quando nel 1993 scorrazzavo insieme ai Taliban in Afghanistan erano loro l’orrore a quel tempo (ma non meno i Signori della guerra che con un sanguinosissimo conflitto interetnico si spartivano la nazione, ndr) – imparando la loro filosofia, vedendo come governavano e trattavano le persone, cosa pensavano della geopolitica… I Taliban erano educati, cortesi, non particolarmente comunicativi però – almeno fino a un certo momento – non ti torturavano, non ti appendevano per i piedi, e ti consentivano – con molte restrizioni, per esempio il divieto di fotografare – di descrivere quello che vedevi. Ora so come nessun giornalista obiettivo sarà mai in condizione di fare la stessa cosa con l’Is…”

Pochi reporter come Rashid hanno avuto fegato, desiderio professionale e opportunità per avvicinarsi a soggetti demoni e demonizzati, sebbene in tante circostanze centinaia di cronisti di guerra e di situazioni complesse rischiano la vita, e purtroppo a volte ce la rimettono, per casualità o per vendette di politici, affaristi, militari e paramilitari che non vogliono far documentare le nefandezze che li contraddistinguono. Da Ilaria Alpi ad Anna Politkovskaja, passando per l’eliminazione di tanti giornalisti scomodi, il potere manifesta la sua globale avversione verso taluni narratori. La strategia avviata dal sedicente Stato Islamico di Al-Baghdadi è ancor più estrema. Utillizza il terrore assoluto, rivolgendolo contro le minoranze etnico-religiose sgradite, siano yazidi, cristiani o sciiti, le popolazioni anche sunnite assoggettate, i testimoni indesiderati: giornalisti e cooperanti. Parliamo di giornalisti e cooperanti veri, non offrendo ai carnefici l’alibi di scoprirne (come in certi casi accade) alcuni nella veste d’informatori dei propri avversari. Ci riferiamo al giornalismo che si muove per raccontare il mondo, negli angoli disagiati del mondo, nei luoghi resi insicuri da odi e contrasti, che ficca il naso cercando di studiare, comprendere, riferire concetti che le informazioni d’apparato non amano offrire. Perché non gli conviene e perché chi comanda vuole ragionare e finanche testimoniare per tesi. Le proprie. In genere senza confronto alcuno.

Così l’Isis punta a fare terra bruciata di qualsiasi comunicazione su di sé e attorno a sé, vuole ammantarsi di mistero per creare un mito. Vuole offrire – come fa ogni regime – l’unica e sola rappresentazione d’una realtà che ha preconfezionato. Per adesso il macabro rituale dell’esecuzione dei disturbatori - occidentali ma potrebbero essere d’ogni razza - va avanti, tanto che né Rashid né altri nomi celebri del mestiere potranno avvicinare gli uomini di quel jihad senza rischiare di diventarne l’agnello sacrificale. Eppure mentre questo è lampante, va in scena l’ennesima ambiguità. Come diffusamente si chiosa, fra i numerosi partecipanti alla coalizione anti Isis, lanciata da Obama e benedetta dal summit parigino, ci sono doppio e triplo giochisti. Il presidente americano lo sa perché questa tattica è d’uso alla Casa Bianca. Stati che dicono di combattere i jihadisti mentre li finanziano: non solo il wahabbismo saudita, anche gli Al-Thani, i Khalifa e l’Islam politico turco, di sponda erdoğaniana e ğulenista. Beh, questi stessi “volontari” d’una guerra proclamata da tanti ma che quasi nessuno vuole combattere sono vicinissimi al califfo Al-Baghdadi quando, dentro i propri confini, impediscono, attaccano, azzerano la comunicazione libera, l’informazione a essi sgradita. Su tale terreno certi volenterosi non differiscono dai lugubri fondamentalisti.

Naturalmente forma e modi non sono quelli dei tagliateste in nero. Però i giornalisti e cooperanti oppure gli oppositori finiti nelle prigioni egiziane, saudite, siriane e anche turche non vengono trattati coi guanti bianchi. Gli alleati d’occidente ne sono coscienti, ma tacciono. Probabilmente la lucida follìa che risponde al termine deontologia continuerà a condurre giovani e vecchi reporter vicino ai luoghi dello strazio. Senza eroismi, né suicide manìe di protagonismo, semplicemente seguendo passione e impegno. Con tutte le precauzioni possibili, evitando di diventare facile bersaglio del ricatto dell’esecuzione esemplare e dissuasiva. Di fatto in questa fase, e chissà per quanto, il reportage mediorientale diventa un lavoro non solo logorante, ma ad alto rischio.  

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