Non mancano solo i banchi, in molti casi non c’è
più la scuola, ridotta a un cumulo di macerie. E soprattutto non ci sono tanti
compagni, finiti sotto le bombe dell’ennesimo sterminio. Immotivato. Il
ministero dell’Educazione di Gaza, Ziad Thabet, annunciando l’inizio dell’anno
scolastico per i bambini delle primarie ha offerto alcune cifre: a lezione
andranno in 230.000, in gran parte utilizzando edifici delle Nazioni Unite,
qualche decina di migliaia nelle strutture private. Si tratta di luoghi di
fortuna, che sorgono in alcuni casi in tende, vista l’ampia devastazione di
costruzioni colpite dai bombardamenti dei caccia israeliani. 26 istituti
risultano totalmente distrutti, 232 hanno subìto danneggiamenti più o meno
consistenti. Solo due settimane fa l’avvio dell’anno scolastico era a rischio
perché nelle sedi dell’Unhcr si ammassavano ancora migliaia di sfollati,
privati anche del tetto sotto cui mangiare e dormire. Eppure ieri il centro di
Gaza city pullulava d’una moltitudine di grembiulini e uniformi indossate dai
bambini in una specie di enorme sfilata pre scolastica, cui partecipavano
genitori e familiari.
Insieme. Non solo per un momento d’orgoglio con
cui mostrare il riscatto dai giorni bui dell’emergenza, ma rincorrendo il
desiderio di normalità reso impossibile dalle condizioni estreme in cui i
palestinesi della Striscia sono costretti a sopravvivere. La questione dei
fondi per la ricostruzione risulta un problema annoso, come già sperimentato
per gli altri attacchi distruttivi rivolti alla gente di Gaza nel 2009 e 2012. I
denari dell’Onu e della Comunità internazionale non vengono indirizzati alle
autorità locali, dell’amministrazione di Hamas, ma passano per le strutture
dell’Anp di Cisgiordania. E i tempi,e gli ostacoli, burocratici e politici, si
sommano. Rappresentanti dell’Unicef hanno lanciato in queste ore un grido
d’allarme alle potenze mondiali. Dicono che quelli per scuola e istruzione sono
investimenti per il futuro dei ragazzi stessi e dell’intricata situazione: “una gioventù istruita lavorerà per
sciogliere i nodi dell’annosa questione israelo-palestinese ed emancipare se
stessa da povertà e subordinazione”. E’ quanto vorrebbe chi lavora contro
l’autodeterminazione palestinese.
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