Accanto all’Obama in versione guerrafondaia
moderata, ma giustificatore l’intervento
armato contro l’Isis per difendere la civiltà occidentale e la sicurezza del
mondo, la recente Assemblea delle Nazioni Unite ha visto i riflettori rivolti a
due presidenti di stati islamici, diversi per condizioni e approccio, ma vicini
per realismo politico: l’iraniano Hassan Rohani e il turco Recep Tayyip Erdoğan.
Massimi esponenti di due potenze regionali che dall’acuita crisi mediorientale
ricevono danneggiamenti politici. Col suo perentorio “L’Is è una minaccia per la civiltà” Rohani s’è messo in sintonia
con chi guida e sostiene la missione anti jihadista, seppure la chiosa sugli
Stati Uniti che “da anni sbagliano tutto”,
non fa perdere al suo Paese (considerato tuttora stato terrorista da tanta
politica americana) un distinguo essenziale. Eppure la real-politik del momento,
potrebbe far superare l’impasse. Lo sciismo è considerato un nemico dal sunnismo
fondamentalista al pari di qualsivoglia imperialismo occidentale. L’ascolto e
le aperture fra presidente Usa, quello iraniano e il premier britannico Cameron
possono prevedere approcci e scambi sulla crisi dell’Isis in atto; specie se
questa “guerra” diverrà un’azione prolungata nel tempo.
Paradossalmente l’Iran riceve dal generalizzato pericolo
del fanatismo wahhabita un indiretto aiuto per uscire dall’embargo politico
subìto per decenni e non bypassato neppure dai negoziati sul proprio nucleare.
Che potrebbe diventare l’elemento di scambio con statunitensi, britannici e
francesi, giudici del suo arricchimento dell’uranio. Da ottimi diplomatici, con
Rohani in testa, i politici iraniani colgono quest’occasione, sebbene la
nazione punti alla tranquillità e non veda favorevolmente la destabilizzazione
dell’area. Un caos che amministrazioni amiche, come quella di Maliki in Iraq,
comunque hanno contribuito ad ampliare col proprio settarismo. Del resto se
l’egemonia della regione non verrà condivisa, lo spettro di conflitti economici
e militari continuerà ad aggirarsi, accompagnato dalla volontà statunitense di
vestire i panni del tutor-controllore tramite governi alleati o fantoccio. Anche
Erdoğan ha enunciato la necessità di combattere il sedicente Stato Islamico, un
Islam deforme che ne stravolge regole e princìpi. Il neo presidente turco,
abile e supponente al tempo stesso, deve scrollarsi di dosso l’accusa di
appoggio al jihadismo non solo vagamente ribelle foraggiato tramite l’Esercito
Siriano Libero, già due anni or sono.
Deve rispondere (nei mesi addietro in qualità di
premier) dei flussi di armi, guerriglieri turchi e di varie nazionalità
comprese le occidentali, transitati dai suoi confini nel sud-est della Siria
per partecipare agli assalti contro le zone kurde della Rojava, e poi in
territorio iracheno contro popolazioni (ancora kurdi e yazidi) e gruppi
religiosi. Anche perché queste finiscono con pulizie etniche e terrore diffuso
con le decapitazioni degli ostaggi, il volto più crudele e vile di tali
sedicenti combattenti di Allah. Contro cui, comunque, ha manifestato pur in
seconda battuta di schierarsi. In Turchia fra i problemi all’ordine del giorno,
oltre a garantire la tranquillità commerciale e d’investimento, c’è il flusso
di enormi masse di rifugiati, ormai più di un milione e mezzo. E la difesa
delle frontiere, se queste dovessero subire azioni offensive di jihadisti. Per
tacere del rischio attentati, che pone Istanbul e Ankara, molto più a portata
di mano di New York e Parigi. In un ruolo attivo e non solo di sostegno ideale
alla colazione anti Isis, i due presidenti e le due potenze regionali dovranno
coinvolgere anche i propri apparati bellici. Quegli “scarponi sul terreno” che
Obama non vuol far mettere ai marines e che per ora solo gli alleati
doppiogiochisti del Golfo sembrano voler fornire. La Turchia è Nato-dipendente
e potrebbe farlo, l’Iran ha ben altri riferimenti. Fra l’ipotesi e il
coinvolgimento concreto il divario è ancora ampio.
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