La caccia alle armi chimiche di Asad (un
migliaio di tonnellate di cui un terzo è costituito da gas Sarin, accompagnato
dal più potente VX) è iniziata da parte di una task force di venti esperti
dell’Organizzazione proibizione armi chimiche che dovrà - dovrebbe - visitare
ben 45 siti dove il terribile materiale è conservato. Ben 19 di essi si trovano
in zone da mesi infiammate dalla battaglia fra gruppi ribelli ed esercito
lealista. Agire in quelle aree è un’operazione che potrebbe rimanere teorica,
occorrerebbe attuare tregue locali che sono nient’affatto certe. Anche il modo
di eliminare i contenitori coi gas non è scontato, sia l’opzione di caricamento
e trasporto all’estero, e ancor più la distruzione “sicura” in loco risultano dispendiose
e soprattutto problematiche. Sebbene ufficialmente sia il presidente Asad
nell’intervista rilasciata all’italiana RaiNews24, sia il portavoce della
Coalizione Nazionale Siriana ascoltato dalla Bbc abbiano garantito di agevolare
e proteggere l’azione del gruppo dell’Opac. Ma per quel che si è visto negli
ultimi mesi la Csn può parlare solo a nome di alcuni gruppi ribelli, non certo
per i miliziani qaedisti che agiscono in maniera totalmente autonoma.
I tecnici, giunti in auto da Beirut
perché l’arrivo in aereo sulla pista di Damasco veniva considerato poco sicuro,
iniziano un lavoro la cui durata teorica è di un mese, quella pratica resta vaga.
La magna politica guarda avanti all’assise di Ginevra due, che dovrebbe tenersi
a metà novembre sull’onda della spinta offerta da Russia e Stati Uniti per
procedere all’abbandono della minaccia chimica e ad accordi per lo smaltimento
di questi arsenali. Se simili passi potranno aiutare anche l’eliminazione delle
scorte siriane, la crisi socio-politica del Paese è tutt’altro che superata. Il
governo ha evitato, per ora, la soluzione drastica della punizione militare dai
cieli ma il domani è sospeso, come le vite di milioni di cittadini. Nel suo
lungo discorso davanti a telecamere non amiche Asad è parso reattivo e padrone
di molti argomenti. Sicuramente incoraggiato dall’uscita dall’angolo in cui si
trovava un mese fa sotto la minaccia dei Tomahawk
statunitensi. E rincuorato dall’apertura di Obama verso l’Iran, paese amico e
potente alleato. E l’uno-due del presidente statunitense che rinuncia
all’azione punitiva e carezza l’omologo ayatollah restituisce ad Asad sicurezza
e voglia di spiegarsi.
Con un assolo realistico
scopre un Re già nudo, l’Europa priva, e non solo a suo dire, d’un ruolo
autonomo (“l’Europa ha adottato la prassi
di Bush: emargina gli stati con cui non è d’accordo, parla di emergenza
umanitaria ma lancia terribili embarghi contro i popoli”. Il presidente-dittatore parla del futuro che “necessita indubbiamente di dialogo politico (sic) ma solo dopo aver fermato la violenza, il
contrabbando di armi, il terrorismo. Poi serviranno le elezioni per far dire al
popolo quel che desidera. Io obbedirò alle decisioni che ogni singolo cittadino
manifesterà”. Asad di fronte a un dissenso pacifico sostiene che si farebbe
da parte, ciò che non fece quando nel marzo 2011 la piazza iniziò a
contestarlo. Ha meditato di fronte al caos nazionale? Forse. I suoi detrattori
sostengono che il sistema di potere clanista che lo sostiene, e che egli stesso
incentiva, non gli permetterà di abbandonare interessi radicati, anche di
carattere economico. Lui parla di difesa della storia nazionale, del crogiuolo
di razze e confessioni che c’era prima dell’Islam e dopo l’Islam, della laicità
con cui lo Stato garantisce ogni religione e minoranza. Contro l’invasione
ideologica jihadista estranea alla tradizione interna e refrattaria a ogni
democrazia perché rifiutando il confronto, volta le spalle al prossimo, uguale
e diverso da sé. Chissà se, con chi e quando un simile dialogo inizierà davvero.
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