Sebbene i Taliban
consiglino
alla popolazione afghana di stare alla larga dalle presidenziali del prossimo 5
aprile la macchina elettorale è già in corsa e ha concluso la raccolta delle
candidature. Venti nominativi verranno vagliati da una speciale commissione
elettorale decisa a onorare la scadenza che darebbe lustro alle velleità di
ripresa democratica della nazione. Sulla democraticità di possibili futuri
presidenti incombe un passato marchiato a fuoco: la partecipazione alla crudele
guerra civile di cui taluni furono protagonisti dal 1992 al 1996. Si tratta di
Signori della guerra doc come il pashtun Abdul Rasoul Sayyaf che ha presentato
la candidatura portandosi al fianco due bei calibri del controllo militare del
territorio: Ismail Khan, comandante di Herat, e l’uzbeko Abdul Erfan. Oppure
l’altro Warlord uzbeko Rashid Dostum che rafforza la squadra di Ashraf Ghani,
il più quotato a subentrare a un Hamid Karzai impossibilitato a presentarsi per
un terzo mandato. Il presidente uscente resta comunque dentro la corsa
elettorale con l’escamotage di candidare, assieme a Abrahim Qasimi e Wahidullah
Shahrani l’ennesimo membro di famiglia: il fratello Qayum. La task force pare
adeguata al previso agone politico.
Una partita che
profuma sempre più di dollari e nella quale, non a caso, si tuffano i Signori della
guerra trasformatisi in Signori degli affari. La Comunità Internazionale che
sarà presente solo come osservatrice non è più coinvolta nell’organizzazione
delle elezioni, continua però a finanziarle anche indirettamente con la
promessa di riempire di denaro i candidati istituzionalizzati che renderanno
possibile l’attuazione d’un sistema politico pluralistico. Fra costoro rientra
Abdullah Adbullah che cercò di contrastare il clan Karzai nel 2009 e si ritirò
nella seconda fase denunciando brogli. La figura più spendibile risulta Ashraf
Ghani, ex ministro delle finanze che non porta il barbone di Sayyaf bensì un
esotico pizzo; è affabile, poliglotta, culturalmente preparato grazie a studi
di antropologia e soprattutto ha lavorato per la Banca Mondiale, biglietto da
visita che estasia Washington. Dovrà superare la nota negativa evidenziata
dagli avversari legatissimi all’appartenenza tribale: Ghani è stato all’estero
per ben cinque lustri e in patria è considerato uno straniero. Lui si difende
dicendo che non erige steccati verso la gente comune, vuole stare fra il popolo
e aiutarlo. Si trova contro anche il fratello Hashmat che ha presentato una
propria candidatura, ma c’è chi sostiene si tratti solo d’un diversivo per
sviare nomi pesanti in lizza.
Il programma di
Ashraf risuona già roboante quando afferma di voler introdurre una collaborazione fra il vincitore
e gli avversari battuti, coinvolgere giovani,
donne, strati poveri della popolazione. Promette che il 60% del suo governo
sarà composto da personale compreso fra i 25 e i 45 anni e pensa a un impiego
sostenibile per dodici milioni di giovani, spesso analfabeti. In dichiarazioni
recenti ha considerato i talebani una realtà del Paese con cui potrebbe
dialogare, ha riconosciuto un importante ruolo al presidente che chiude il
mandato e ne ha sottolineato l’impegno per la pace (sic!). Sul tema caldo della
corruzione afferma che occorre analizzare settore per settore, alcuni sono da
rifondare visti gli enormi sprechi, l’esempio della sanità è illuminante: 2/3
delle spese sono fittizie e oliano il sistema anziché aiutare i malati. A suo
dire far pulizia nei settori dove la corruzione è profonda richiede una
quindicina d’anni. Vanno ricercate buone relazioni politiche ed economiche con Tajikistan
e Uzbekistan, stabilizzate quelle con l’Iran che presenta un nuovo corso. Il
capitolo Pakistan, bontà sua, prevede tempi più lunghi. Anche lì i Taliban non
stanno a guardare.
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