Se stenta il Cairo figurarsi l’Egitto profondo. Le
voci quotidiane dalle strade della capitale continuano a dolersi d’una
depressione economica che, al di là delle scelte di Mursi o di Al Sisi, tiene Pil
e salari ancoràti in basso. Crescono solo disoccupazione e inflazione con un
ulteriore attacco ai beni di consumo primari i cui aumenti avevano scatenato le
rivolte dello scorso inverno a Port Said e nel governatorato del Delta. Le
ultime settimane rivelano come la pur carente direzione dell’establishment
islamico sia coivolta parzialmente con le difficoltà economiche diffuse. La
piaga della fame viene riscontrata da quei media egiziani che non chiudono gli
occhi e li dirigono non lontano da quartieri centrali come Ben-Al Kanayes,
verso la stazione Ramses. La gente intervistata ricorda che il nome della zona
si rifà alle fave, proteico legume e piatto centrale della cucina cairota, il
cui costo di una lira è fra i pochi a non aver subìto ritocchi forse proprio perché
innescherebbero rivolte in una cospicua fetta dei 25 milioni che affollano la
capitale.
Le lamentale sono
diffuse sebbene attualmente due
temi della propaganda militare calamitano l’attenzione generale: l’insicurezza dovuta
al terrorismo e la rinnovata esaltazione del ruolo dell’esercito. Se da una
parte il Fronte della legittimità, pur sotto una feroce repressione, prosegue
la contestazione pubblica della lobby delle divise, dall’altra la figura del
generale Al Sisi è considerata eroica. Nella summenzionata area sottoproletaria
oppure in quella di Darb Al-Ahmar che sorge al fianco dell’antico e noto
mercato di Al-Khalili l’esposizione sui banchetti poveri o nelle botteghe di
gioielli per turisti dell’immagine di Al Sisi (come un tempo erano quelle di
Mubarak-Sadat-Nasser) sta diventando un “must”. Oltre la moda, l’opportunismo
verso il vincente unisce ambulanti poveri e un ceto medio commerciale che
resistono alla durezza dei tempi e paiono appagati dall’icona dell’uomo della
provvidenza, visto come l’ennesimo salvatore d’una patria minacciata dalla
Fratellanza.
E’ il refrain proposto
dalle Forze Armate e
ripetuto come un mantra da quei politici (ElBaradei, Sabbahi) passati dopo il
‘golpe bianco’ in secondo piano nelle cronache e nel sentire di tanta gente
comune. Molta della quale rivela la propria nostalgia dichiarandosi elettrice
un tempo di Mubarak, poi di Shafiq alle presidenziali a loro vedere “usurpate”
da Mursi. Comunque c’è chi consiglia ad Al Sisi di starsene lontano dalla
tentazione dell’urna: il generale dovrebbe al massimo occuparsi del dicastero
della difesa e garantire la nazione dall’alto, mentre chi ne reclama un’aperta
candidatura evidenzia l’inadeguatezza di tutta la politica civile sorda ai
problemi della popolazione perché distante dai più deboli. Muoversi fra le
bottegucce del celebre suq come fa la telecamera d’una televisione che inquadra
volti sofferenti pur nella speranza del futuro è una rivelazione visiva di
stati d’animo lacerati.
Un futuro, lo sanno
tutti, incapace di decollare fuori dai famosi aiuti finanziari esteri. Qualcuno
sostiene che la religione non divide la cittadinanza: solamente le componenti
più povere e analfabete delle comunità islamica e copta continuano a vivere
animosamente la propria appartenenza confessionale. Si voti o meno - ma le
consultazioni vengono metodicamente rinviate e le nuove presidenziali che
seguirebbero l’ennesima riscrittura della Carta Costituzionale si dovrebbero
tenere, fra mille forse, tra un annetto - ciò che deve registrare l’egiziano
pur munito della taumaturgica foto di Al Sisi è l’assenza di miracoli e il blocco
d’ogni iniziativa. Si prolungano sopravvivenze con appena un dollaro al giorno,
e neppure tutti i giorni che Dio manda in terra. Una situazione che rabbuia le
stesse speranze. Resta la fede di moschee e chiese, se non vengono
reciprocamente bruciate, più quella delle tante caserme.
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